L’educazione al patrimonio in chiave interculturale: il contributo dell’antropologia

Vito Lattanzi
Museo Nazionale Preistorico Etnografico "Luigi Pigorini" | Roma
2007

1. Multiculturalismo, intercultura, educazione alla diversità, sono espressioni entrate nel linguaggio comune e hanno una storia che attraversa o coinvolge direttamente gli ambiti di riflessione dell’antropologia. Il nesso tra educazione e antropologia è del resto ben presente sin dalle attenzioni dedicategli da Franz Boas, uno dei padri indiscussi dell’antropologia moderna (Boas 1928). Oggi esso è di sicuro vivacizzato dalle trasformazioni socio-culturali del presente e da una specifica attenzione etnografica alla complessità dei contesti educativi (Callari Galli 1993; Gobbo e Gomes 1999; Falteri 1999). Di fronte alla realtà contemporanea, fortemente contraddistinta dal movimento e dai contatti culturali, l’antropologia, in ragione della tradizione teorica e metodologica che le è propria, costituisce la disciplina più adatta ad analizzare da vicino idee, pratiche e prodotti di quei fenomeni che oggi ripropongono con forza le questioni concernenti l’identità e i suoi dinamici processi di costruzione (Marazzi 1998). Cultura e identità culturale – come ci ha avvertito da ultimo Clifford Geertz – non sono gabbie che imprigionano individui e gruppi in appartenenze indissolubili e senza tempo; non sono qualcosa di sostantivo, ma campi di differenze che si mantengono in equilibrio grazie alle funzioni di solidarietà (che consentono di eludere le divisioni interne gravide di conflitti) e di divisione (che portano al rifiuto di solidarietà troppo esclusive) (Geertz 1998). La critica ai concetti reificati di cultura e di identità, sviluppata dall’antropologia contemporanea a partire dal lessico delle differenze, ha avuto esiti estremamente fertili sul piano della ricerca delle compatibilità interculturali. Insieme alla critica dell’etnocentrismo, che contraddistingue le fasi aurorali della storia della disciplina, essa ha puntualizzato ulteriormente il senso della riflessione sulle forme di umanità portata avanti dall’antropologia, e che già Clyde Kluckhohn negli anni trenta del Novecento riassumeva in questi termini: “Ogni uomo è per certi aspetti uguale a tutti gli altri uomini; uguale ad alcuni altri uomini; uguale a nessun altro uomo”.

2. Per rappresentare la politica della convivenza sociale e della solidarietà attiva, nel 1980 l’Unesco, in una pubblicazione sui contatti tra culture (Introduction aux études interculturelles), ha adottato l’espressione interculturalità. Una società può definirsi interculturale quando le differenti culture che la animano interagiscono in un rapporto di scambio reciproco finalizzato alla salvaguardia delle rispettive identità. L’espressione indica dunque un atteggiamento, un modo di vedere, un traguardo da raggiungere, e in questo senso si connette ai processi educativi che hanno come obiettivo il riconoscimento delle differenze (Poletti 2000). L’interculturalità, pur costitutiva delle dinamiche relazionali tra identità e differenza, è dunque diventata una parola chiave delle politiche educative e sociali dei sistemi democratici che hanno preso atto dell’esistenza di una società multiculturale e intendono governarla all’insegna del pluralismo. Da questo punto di vista politico gli antecedenti li troviamo agli inizi del Novecento. Il progetto di realizzare una convivenza armoniosa delle diverse identità rinvia infatti al filosofo ebreo-statunitense Horace Kallen, che nel 1915 sostenne con forza il principio che la società multietinica americana, per garantirsi una crescita democratica, dovesse valorizzare le culture di origine piuttosto che imporre l’omologazione al modello dominante W.A.S.P. (bianco, anglo-sassone, protestante). Nonostante questi semi, tuttavia, negli anni cinquanta gli Stati Uniti adottarono la politica del cosiddetto Melting Pot, l’ideologia assimilazionista fondata sul principio di “fusione” proprio rifiutato da Kallen (Marta 1994).Tale logica integrazionistica cominciò ad essere abbandonata sull’onda del revival etnico degli anni sessanta, che riaprì le porte a una prospettiva politica più pluralista. Con l’affermazione del concetto “etnicità” si fece strada il diritto di far parte della comunità nazionale senza rinunciare alle proprie specificità culturali: muoveva i primi passi la politica multiculturalista, una prospettiva tutt’altro che pacifica sulla quale la discussione è ancora aperta (Taylor e Habermas 1998, Colombo 2002).

3. Società multiculturale, educazione interculturale e didattica dei patrimoni appartengono a un ambito di riflessione e di pratiche istituzionali sempre più integrati (Lattanzi 2004). Nella prefazione a un volume che raccoglieva i contributi di un’esperienza di educazione interculturale, anni fa Matilde Callari Galli suggeriva di riflettere sulla teoria del complementarismo del noto etnopsichiatra George Devereux come utile spunto per pensare l’incontro con la diversità: l’incontro, in questa prospettiva, è confronto tra mondi eterogenei, autonomi e paritari ed è animato da una tensione verso una nuova definizione delle identità, verso nuove socialità fondate sul reciproco riconoscimento (Giacalone et alii 1994). Rapportato alla politica dei patrimoni, questo appello al confronto interculturale implica che anzitutto si assuma la nozione di patrimonio nel senso dinamico e processuale assegnatogli dai più recenti studi antropologici (Padiglione 1997; Lattanzi 1999; Maffi 2006). Il patrimonio culturale è un fenomeno culturale, non è un bene che ha un valore in sé e per sé; è fondato su criteri storici e convenzionali, dunque è un prodotto culturale contemporaneo, non è una cosa del passato; è espressione della coscienza attuale che una comunità ha del suo passato, quindi è socialmente costruito da pratiche identitarie e da saperi non solo di ordine scientifico o artistico, ma anche politico ed economico (Pezza 2006). Il nuovo concetto di patrimonio sarebbe inconcepibile senza il lavoro di critica e di ripensamento svolto dall’antropologia sul concetto di tradizione, ormai non più interpretata come un retaggio del passato ma come un prodotto della modernità, come un processo di costruzione simbolica grazie al quale certi valori del passato, attualizzati nelle forme e nei contenuti, danno senso a particolari condizioni culturali del presente (Clemente e Mugnaini 1999). Coniugati insieme nel quadro di una didattica orientata all’analisi e alla valorizzazione delle differenze, il concetto di patrimonio e quello di tradizione esprimono un potenziale educativo di straordinaria efficacia; perdono quel valore monologico ed etnocentrico che eravamo abituati ad attribuirgli e si prestano ad essere utilizzati in chiave interculturale.L’educazione al patrimonio culturale è infatti un processo di conoscenza delle acculturazioni, delle stratificazioni, delle ibridazioni che i prodotti materiali e immateriali dell’umanità subiscono nel corso della loro definizione. Lo studio e l’analisi di questo processo, svolto all’insegna della metodologia comparativa e riflessiva dell’antropologia, promuove e non trascura il confronto tra simboli identitari. E il confronto (benché includa il rischio della disgregazione sociale o dell’omologazione culturale) prelude sempre al patto, alla negoziazione tra identità differenti.Il patrimonio è veicolo di dialogo interculturale anche in un altro senso. Se, per esempio – come ci ha insegnato Hugues De Varine (2005) –, viene posto “al servizio dello sviluppo locale”. Il museo sembrerebbe lo strumento più idoneo a realizzare questo obiettivo poiché per sua natura permette di “trasformare in patrimonio ‘nostro’ (del ‘noi, qui ed ora’), momenti, aspetti e frammenti di un ‘passato’, che in quanto tale è di ‘altri'” (Remotti 2000). Se il passato “è un paese straniero” dove le cose si fanno in un altro modo, allora il museo è il luogo dell’incontro con l’alterità, lo spazio in cui si dispiega uno sguardo comparativo e riflessivo sull’alterità.Le esperienze sino a oggi praticate connettendo la scuola al museo e al territorio sono molto indicative. Esse hanno diffuso l’esigenza di usare: a) la diversità come risorsa per la programmazione; b) la cultura materiale come laboratorio della memoria e dell’analisi dei processi di patrimonializzazione. In questa prospettiva, debitrice nei confronti delle teorie e delle pratiche dell’antropologia, e non del tutto estranea alle novità già introdotte nella scuola negli anni settanta, il tema dell’interculturalità si viene a sovrapporre a quello della ricerca sul territorio, e ridà impulso a una programmazione centrata sul passaggio dal “fare” didattica allo “stare” nella didattica, consapevoli della differenza fondamentale esistente tra insegnamento e apprendimento nei processi educativi.
Oggi che l’antropologia dell’educazione ha guadagnato un suo spazio autonomo ed è un’autorevole voce critica nei confronti dell’ancora dominante vocazione monoculturale della scuola (insegnanti, libri, pratiche); che dal “culturalismo” ingenuo si è passati alla critica del concetto di cultura e delle categorie di etnicità, identità, diversità,…; che i percorsi educativi sfruttano le potenzialità del lavoro interdisciplinare e i progetti valorizzano le strategie del partenariato; forse possiamo immaginare un uso del patrimonio culturale meno elitario o differenzialista, più aperto al confronto tra mondi e appartenenze locali, medium funzionale alla condivisione di orizzonti, strumento utile alla formazione di cittadini differenti ma con uguali diritti.

Riferimenti bibliografici

Boas F., Anthropology and Modern Life, W.W. Norton & Company, New York, 1928; trad. it. Antropologia e vita moderna, Ei Editori, Roma, 1998.

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Padiglione V., L’effetto cornice. Problemi e prospettive della mediazione del patrimonio, in “Etnoantropologia”, n. 6-7, 1997, pp. 137-154.

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Poletti F. (a cura di), L’educazione interculturale, La Nuova Italia, Firenze, 2000.

Remotti F. (a cura di), Memoria, terreni, musei, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2000.

Vito Lattanzi, etnoantropologo, lavora dal 1987 presso il Museo Nazionale Preistorico Etnografico "Luigi Pigorini" di Roma, dove è Direttore del Settore "Culture del Mediterraneo" e responsabile dei Servizi Educativi. Dal 2001 insegna Antropologia Culturale presso la Facolta di Psicologia 1 dell'Università degli Studi di Roma "La Sapienza". E' membro del Direttivo della Società italiana per la museografia e i beni demoetnoantropologici (SIMBDEA) e redattore della Rivista quadrimestrale "Antropologia Museale"