È un momento individuale, prezioso e rischioso contemporaneamente, il tempo che intercorre tra un accadimento, un’emozione e il suo racconto. Il tempo in cui cercare le parole e le immagini giuste, più efficaci per narrare a qualcun altro ciò che ci sta a cuore, in modo che ne colga l’importanza che ha realmente per noi.
Prima di tutto l’urgenza, la necessità o, comunque, il desiderio di condividere un’esperienza vissuta o percepita. Poi c’è la sua forma verbale, accompagnata dal gesto, dallo sguardo, dalla postura, dalle quali dipenderà l’efficacia della comunicazione.
Fra questi due momenti c’è il tempo in cui, nel nostro pensiero, immaginiamo come sarà il nostro racconto.
Può l’opera d’arte diventare il luogo per dire questo sentire intimo della propria storia senza perdere le sue peculiarità di conoscenza storico artistica? E viceversa, può un’esperienza di vita aiutare a dare sguardi nuovi all’opera d’arte e permettere di avvicinarla senza paura di contaminarla, ma anzi con la speranza che ciò le permetta di essere compresa e fruita da un pubblico altrimenti estraneo? E se a compiere questa esperienza fossero persone che provengono dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina, come avverrebbe l’incontro con le opere della nostra cultura occidentale? Una specie di doppio salto mortale: non solo la narrazione, ma pure realizzata da persone di altre culture.
Queste sono le basi della scommessa che la Pinacoteca di Brera ha fatto con un gruppo di mediatori museali. Non nascondo il brivido che ho avuto quando i Servizi Educativi del museo mi hanno chiamato per attivare un cantiere di narrazione in questo luogo tanto ricco di bellezza. Portavo con me un desiderio e un bisogno. Il desiderio era intrecciare due mie passioni, il teatro e l’arte visiva, il piacere di usare linguaggi diversi e poterli contaminare fra loro. Il bisogno era di avere compagni di viaggio affidabili.
Intuivo le potenzialità ma, sono sincera, non ne ero certa.
Gli inizi dell’esperienza: il Museo Popoli e Culture e il progetto “TAM TAM”
Avevo già sperimentato il metodo narrativo nell’ambito dell’arte contemporanea, attraverso un laboratorio per guide e mediatori museali alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo. Soprattutto venivo da due anni di lavoro al Museo Popoli e Culture del PIME di Milano con quattro mediatori e guide museali nell’ambito del progetto “TAM TAM – Tutti Al Museo”. Lì, con Simona Bodo e Silvia Mascheroni, avevamo sperimentato il metodo che affianca ad un’opera presente nel museo un proprio oggetto personale, di affezione.
Così le collane Lambadi (una tribù dell’India settentrionale) incontravano le collane degli indios di Rosana e la sua vita a cavallo fra Brasile e Italia. Le sue parole facevano sentire quanto, per un immigrato, l’apprendimento di una nuova lingua possa essere al centro del percorso di trasformazione identitaria.
Le piccole, preziose e fragili bambole giapponesi si sono fatte vive attraverso l’immagine di un orsacchiotto di peluche grande, quotidiano e indistruttibile: ad unire questi due oggetti con storie tanto differenti c’era Francesca e il sogno della maternità, vissuto come figlia, desiderato come madre.
Nel lavoro al Museo del PIME abbiamo visto crescere il linguaggio dei mediatori in modo sorprendente. Ancora oggi provo stupore a vedere Connie (Filippine) che parla con scioltezza davanti alle vetrine. La ricordo all’inizio impacciata a trovare le parole giuste, la voce tremolante. Connie aveva fin dall’inizio un dono, la danza. In ogni suo movimento era come se portasse nel suo intimo le danze del suo paese. Il mio lavoro con lei si è concentrato nel fare fluire alla voce quel suo sentire ritmico e armonioso del corpo. Un lavoro tutto interiore, che ha dato però dei risultati formali evidenti.
In questa mia prima esperienza “protratta” di lavoro museale (il progetto “TAM TAM” è durato nel complesso quasi due anni) sono passate dentro tante emozioni profonde, come se le esperienze personali non scorressero a lato del museo, ma lo attraversassero, e il museo fosse diventato un luogo in cui viverle, da cui farsi accompagnare nell’avventura dell’esistenza. Come se le persone che ci avevano preceduto, vissute in luoghi tanto lontani, fossero diventate compagni di viaggio.
Ma potevano diventare compagni di viaggio giganti come Raffaello o Bramante?
Il progetto “Brera: un’altra storia. Percorsi interculturali nel museo”
Ricordo il primo incontro nelle sale della Pinacoteca di Brera con i mediatori museali per il progetto “Brera: un’altra storia”. Tranne due, li conoscevo tutti per avere condiviso con loro esperienze a Bergamo (in GAMeC e nei progetti culturali che avevo realizzato per il Teatro Donizetti) e al Pime. Li ricordo spaesati mentre cercavano, negli spazi ampi del museo, i quadri da scegliere per il progetto. Ricordo, soprattutto, la mia preoccupazione quando Emanuela Daffra e Paola Strada (responsabili dei Servizi Educativi e del progetto) ci condussero in un primo giro esplorativo della Pinacoteca, perché nel loro spiegare i dipinti da un punto di vista storico e artistico compivano già delle narrazioni di grande efficacia. Quale valore aggiunto poteva avere intrecciare la dimensione contenutistica con quella esperienziale?
Una cosa, però, mi rassicurava: le opere. Bisognava necessariamente stare attaccati alle opere, stare loro davanti, a lungo, proprio in senso fisico, per cercare un rapporto diretto. Guardare, assaporare ogni centimetro di dipinto, anche se si trattava di un’opera le cui dimensioni davano un senso di smarrimento, come il grande telero di Gentile e Giovanni Bellini dedicato alla Predica di san Marco ad Alessandria d’Egitto: 3.47 metri per 7.70.
Da quell’incontro è seguito un anno di lavoro intensissimo, nel corso del quale un’équipe con competenze diverse, composta da Emanuela Daffra, Paola Strada, Silvia Mascheroni, Simona Bodo, Alessandra Gariboldi e la sottoscritta, ha accompagnato i mediatori museali ad affinare le loro narrazioni per poterle trasmettere con quella leggerezza che rende naturali e spontanee le cose elaborate e studiate a lungo.
Il mio ruolo è stato quello di dare alcuni strumenti sulla tecnica narrativa per poi mettermi in ascolto, cercare connessioni, rimandi, immagini che, magari, nel parlare scorrono come l’acqua di un fiume, e che devono essere setacciati per trovarne il luccichio prezioso. A volte, particolari appena accennati sono come la punta di un iceberg che, sotto l’affiorare sull’acqua, ha un blocco solido e ben radicato. Così è per i rimandi autobiografici: basta un accenno, che appare secondario ma che, approfondito, rivela una ricchezza di esperienza e di visione da divenire il filone di ricerca principale.
Difficilmente, quando lavoro a progetti come questo, aggiungo. Invece cerco, faccio da specchio a chi sta lavorando con me. La narrazione è di chi la compie, il mio è un lavoro di servizio a questa esperienza.
Diverso è il ruolo che assumo nella fase in cui il testo è definito e iniziano le prove per l’esposizione davanti al pubblico. Qui il ruolo è più direttivo: cerco di capire quali sono le forme espressive più congeniali alla persona, la spingo a sperimentare registri diversi, vado alla ricerca delle condizioni in cui c’è equilibrio fra forma e contenuto. A volte mi sembra di fare troppa forza sulla persona con cui sto lavorando ma, dopo anni di lavoro sul teatro di narrazione, sono consapevole di dove posso osare e dove, invece, è richiesta un’attesa.
Forse qualche ricordo può aiutare a capire il processo di lavoro.
La narrazione alla Pinacoteca di Brera: un incontro di mediazione
Nel corso dei laboratori di progettazione, Almir aveva già creato due narrazioni molto “cariche” per il Cristo morto del Mantegna e per la Predica di San Marco ad Alessandria d’Egitto di Gentile e Giovanni Bellini, ma il suo testo per Fiumana di Pellizza da Volpedo non mi convinceva, mi sembrava non necessario. C’era un bell’intreccio fra la vita di Pellizza, la sua opera più famosa, Il Quarto Stato (di cui Fiumana è il diretto antecedente), e la percezione che Almir ne aveva avuto appena arrivato in Italia negli ambienti sindacali, dove la frequente presenza della riproduzione dell’opera assumeva una forte potenza simbolica. Anche l’inizio mi sembrava suggestivo: otto rintocchi per fare presente come ogni otto secondi nel mondo un bambino muoia di fame. Tutto giusto, ma “mancava” Almir, il processo di intreccio autobiografico non era avvenuto, come nelle altre opere.
Ho insistito per due mesi, nonostante il gruppo dicesse che la narrazione era coinvolgente. Siamo a casa mia, già in fase di definizione con un intento di messa in opera dell’esposizione. Chiedo ad Almir di farmi la sua narrazione su Fiumana e se vuole di aggiungere ancora qualcosa, io scrivo. Sono girata allo schermo del computer, ad un certo punto mi sento proiettata dal suo racconto in una piazza di Lima, la tensione della protesta per il rincaro del pane, la rappresaglia della polizia di regime, la fuga, la paura, il cuore che batte, il dolore sulla pelle dei gas urticanti. Almir si ferma. Cerco di chiedergli più particolari, torniamo indietro, riviviamo insieme quei momenti e a un cento punto appare, figura bellissima, una semplice donna india, un’ambulante, che aiuta Almir, gli dà dell’acqua e fa scomparire, in un gesto umano, tutta la violenza che lo circonda. È perfetto, ora ci siamo: è lei che fa parte della vita di Almir, ma è anche l’equilibrio cercato da Pellizza fra la massa del popolo e la responsabilità individuale.
A volte basta poco per facilitare il procedere narrativo. È il caso di Francesca, con lei c’è alle spalle l’esperienza del PIME, c’è molta sintonia, ci intendiamo a volo. Siamo davanti al Cristo alla colonna di Bramante. Ci parla delle visite che lei, nel corso del tempo, da bambina a donna, ha fatto al dipinto. Si tratta di tappe di un percorso di iniziazione alla vita adulta, per arrivare all’accettazione del suo lato d’ombra, del dolore. Inizialmente Francesca alterna un incontro con il quadro ad una riflessione. Le chiedo di accentuare questa scelta: tutto il suo “pezzo” sarà un’alternanza fra tempo fisico e tempo spirituale. Per scandire meglio ed aiutarla a cambiare i registri vocali, inserisco un suono (inizialmente saranno due bacchettine in legno, poi una campana). Francesca è bravissima a seguire il suggerimento, il suo testo è certamente quello su cui abbiamo lavorato meno, perché è bastato questo piccolo spunto iniziale per avere un ritmo e una naturalezza interiore che non richiedeva aggiustamenti.
Se con Francesca è stato facile, più complesso il processo con Margaret, per la quale l’incontro e il fidanzamento dei suoi genitori in Egitto si “confrontava” con Lo sposalizio della Vergine di Raffaello. Il lavoro si disponeva su tre registri: la sua storia, la storia dei pretendenti di Maria nella Legenda aurea e gli elementi storico artistici del dipinto. La fatica di Margaret era permettere l’intreccio di questi livelli per arricchirli di rimandi e suggestioni. Preferiva mantenerli distinti perché pensava in questo modo di salvaguardare il suo racconto familiare.
Con lei avevamo già prodotto un intervento che intrecciava in modo affascinante le tradizioni ancora in uso nel suo paese (e nella sua casa) con alcuni vasi del 3000 a.C. della produzione artistica Naqada e un quadro di Giorgio Morandi: l’Egitto antico e contemporaneo e un’artista moderno italiano. Era un gioco sentirla entrare e uscire, come da vasi comunicanti, da queste dimensioni spazio-temporali, accompagnata dai movimenti delle sue mani e dalla melodia del canto. Eppure davanti a Raffaello era scattato un blocco. Ricordo la sua sensazione di tradimento nel momento in cui le proponevamo una maggiore compenetrazione dei tre livelli. La percezione di Margaret era che il suo testo fosse stato modificato, mentre in realtà era stato solo suddiviso in modo diverso, ma era integro.
Ricordo la tensione, ma anche la capacità del gruppo di comprendere le difficoltà di Margaret e di aiutarla a cercare una propria strada davanti all’opera più famosa della Pinacoteca di Brera. Oggi chi ascolta il suo racconto non può immaginare lo sforzo di mediazione che è stato compiuto: il fluire delle parole, dei gesti, degli sguardi è naturale, semplice.
Proprio questo risultato, raggiunto da tutti i mediatori, coinvolge il pubblico in maniera sorprendente. Da una parte, chi frequenta abitualmente i musei e ha conoscenze storico artistiche è felice di lasciarsi accompagnare in nuove possibilità di comunicazione e di ascolto; dall’altra, chi è “neofita” trova in questi itinerari narrati delle preziose chiavi di ingresso nel museo: non più luogo estraneo, destinato a una élite, ma luogo vivo e reale di incontro con artisti del passato e persone del presente.
A volte scatta anche un ulteriore circolo virtuoso. Dopo gli itinerari di visita, i partecipanti sentono il desiderio di fare parte del gioco di rimandi che è stato loro proposto e suggeriscono il quadro a cui vorrebbero affiancare un loro vissuto, intrecciare una loro storia. In altre parole, hanno meno soggezione davanti all’opera, anche se si tratta di un capolavoro, e la percepiscono come qualcosa che appartiene loro come un patrimonio comune dell’umano.