Patrimonio, musei, pratiche collaborative

Simbdea | 2008

“Antropologia Museale”, Rivista quadrimestrale della Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici, ha dedicato il numero doppio e monografico #20/21 al tema delle pratiche collaborative all’interno dei musei, dando un particolare risalto alle attività svolte da alcune istituzioni museali nel 2008, Anno Europeo del Dialogo Interculturale.
Vito Lattanzi prende in esame la trasformazione in atto nei musei: il loro divenire luoghi in cui esercitare la democrazia e il confronto interculturale, e dove è possibile impegnarsi «nella valorizzazione partecipata e condivisa dei patrimoni culturali» (p. 16).
Simona Bodo affronta il tema del “patrimonio ricreato”. Riflette su quali siano le sfide che i musei devono fronteggiare per promuovere il dialogo interculturale e afferma che «i musei oggi sono chiamati a riconoscere e ad accettare che il patrimonio possa essere “costantemente ricreato da comunità e gruppi” (inclusi quelli tradizionalmente emarginati dai circuiti consolidati della cultura), e non esclusivamente da una ristretta comunità professionale» (pp. 23-24).
Ad affrontare il problema dell’educazione interculturale interviene Silvia Mascheroni, che pone l’accento sul ruolo della scuola e del museo nell’educare in contesti multiculturali – «è importante che l’esperienza educativa sia il risultato di una progettualità partecipata» (p. 26) – e ribadisce l’importanza della formazione e dell’aggiornamento continuo dei professionisti del settore.
Giovanna Brambilla narra l’esperienza della GAMeC – Galleria di Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, dove il 3 giugno 2007 è stato consegnato il diploma di Mediatore Museale
a trentuno migranti, «capaci di mettere la ricchezza della loro diversità culturale al servizio di un diritto fondamentale per l’uomo, il diritto a godere dei beni culturali, spesso vanificato da difficoltà economiche, linguistiche e culturali» (p. 29). Su questa esperienza interviene anche uno dei protagonisti, Almir San Martin, sottolineando il successo dell’iniziativa: «con un evento del genere si è cominciato a pensare agli immigrati non più solo come braccia con solo bisogni primari, bensì come cervelli» (p. 33).
Un’altra esperienza cui sono dedicate diverse testimonianze in questo numero monografico di AM è la mostra collaborativa “Lingua contro Lingua”
, tenutasi dal 17 novembre 2008 al 31 gennaio 2009 presso il Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università degli Studi di Torino. Anna Maria Pecci, responsabile scientifica e coordinatrice del progetto, delinea un quadro teorico di riferimento e fornisce spunti di riflessione sul significato di “mostra collaborativa”. La ricontestualizzazione delle collezioni ad opera dei mediatori ha fatto emergere il potere evocativo ed emozionale degli oggetti, affrancandoli da una pura logica di “rappresentanza culturale”: «Ogni mediatore ha selezionato uno o più oggetti sulla base del proprio sentire emozionale, conoscitivo, culturale; è stato cioè libero di relazionarsi a quelle testimonianze materiali – non necessariamente provenienti dal suo stesso Paese o prodotte nel suo contesto culturale – che più di altre hanno evocato legami con la propria storia di vita…» (p. 36). Andrea Perin, architetto museografo, affronta il tema dell’allestimento partecipato, del ruolo del diasporico nel mediare la progettualità allestitiva: «i mediatori sono stati invitati a immaginare un allestimento sulla base del proprio racconto autobiografico, che comprendesse l’utilizzo di tutti gli elementi utili a evocare la narrazione» (p. 38). Gianluigi Mangiapane, divulgatore scientifico del Museo, sottolinea il valore sociale e culturale dell’iniziativa, mentre Fabio Pettirino, mediatore culturale e dei patrimoni, pone l’accento sull’importanza di aver dato voce ai mediatori: «il potere di un linguaggio che conferisce senso e significato sia in senso diacronico, attraverso il racconto, sia in senso sincronico, con la realizzazione di un allestimento che invita il pubblico a seguire l’esposizione senza assoggettarsi acriticamente a significati precostituiti» (p. 40).
Maria Camilla De Palma parla dell’esperienza del Castello D’Albertis – Museo delle Culture del Mondo di Genova, e racconta le trasformazioni che negli ultimi anni questo museo ha attraversato nel tentativo di valorizzare il dialogo interculturale tra «le popolazioni indigene del mondo, come quelle immigrate o quelle autoctone genovesi. […] è questo scambio di conoscenze, questa condivisione di cammino, questo riallacciarsi di rapporti tra cose e persone che diventa il senso di chi lavora in museo e deve trasmettere il sapere dietro agli oggetti nel rispetto di coloro che hanno costruito le collezioni» (p. 44).
Un’esperienza estera ci viene illustrata da Elena Delgado Corral del Museo de America di Madrid, che ha coordinato la partecipazione spagnola al progetto europeo “MAP for ID – Museums as Places for Intercultural Dialogue”
attraverso cinque progetti pilota, «offrendo la propria visione del museo come uno spazio di rispetto e di riconoscimento dei valori delle culture americane» (p. 48).
Durante l’Anno Europeo del Dialogo Interculturale, il Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma ha attivato tre progetti che hanno visto la partecipazione di alcune comunità della diaspora insediatesi nel territorio romano. Mentre Anna Casalino racconta l’esperienza didattica della mostra collaborativa “Saperci fare”
, Rosa Anna Di Lella e Francesco Staffa descrivono nel dettaglio i tre progetti e ne traggono alcune significative conclusioni: «Il futuro ci pone una sfida stimolante: costruire insieme alle associazioni un ponte, un modello di condivisione che lentamente crei e formi una vera e propria comunità nel museo» (p. 56).
Giuseppina Prayer offre un interessante resoconto della giornata di studi “Doppia visione. Riconoscere/Rappresentare”, tenutasi il 9 dicembre 2008 al Museo Etnologico Missionario (Città del Vaticano). A partire da uno specifico oggetto (una cintura wampum), si è potuto ridiscutere il significato di “rappresentazione” all’interno dei musei, interrogando esperti e nativi e cercando una mediazione che renda possibile il riconoscimento.
Anna Parini racconta la visita di una delegazione Kanak presso il Museo Etnografico della Provincia di Belluno, sottolineando le «inattese convergenze» (p. 62) suscitate nei depositari delle culture oggetto di allestimento.
Conclude la monografia Mario Turci con un testo dal titolo provocatorio Dell’impossibilità che il dialogo possa essere interculturale. Turci, direttore della Fondazione Museo Ettore Guatelli di Ozzano Taro (PR), sostiene che «il museo gioca le sue carte assumendo onestamente la sua funzione di luogo ‘raccoglitore di tracce di esistenze’ e non di identità. Ma questo è possibile in relazione alla sua disponibilità di essere “fatto a pezzi”, quindi di promuovere la “concorrenza” di visioni terze, per accettare, in definitiva, la critica alla sua autorità» (p. 65).
Una galleria fotografica, che testimonia le attività svolte durante l’Anno Europeo del Dialogo Interculturale al Museo Pigorini, scandisce le pagine dell’intera monografia.
A corredare il numero vi è infine l’intervista fatta da Vito Lattanzi ed Egidio Cossa ad Anne Marie Bouttiaux, direttrice del Dipartimento etnografico del Musée Royal de l’Afrique Centrale di Tervuren, che ormai da diversi anni ha aperto le porte alla comunità africana. Ogni due anni, infatti, presso le sale del museo si svolge la manifestazione “Africa <> Tervuren”, un evento essenzialmente ludico che «permette alla popolazione di Bruxelles ma anche a quella della diaspora di raggiungere il Museo. L’idea è dire alla gente della diaspora: “questo museo è il vostro museo […] e voi avete il diritto di investirlo, avete il diritto di giocare un ruolo, di dire quello che pensate, prendendo parte al modo in cui esporre i vostri oggetti e la vostra cultura”» (p.10).

Recensione a cura di Francesco Staffa


Per informazioni su come abbonarsi ad “Antropologia Museale” e/o dove reperire il numero monografico #20-21:
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