“A vision of my own”, diario di bordo

Ornella Costan
CTP "Drovetti" | Torino
2008

(Il testo riporta in forma di appunti alcune considerazioni degli allievi del CTP “Drovetti” di Torino e della loro insegnante Ornella Costan, che hanno preso parte al progetto “A vision of my onw”, promosso dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo nella primavera del 2008)

Le voci dei ragazzi

“La cosa più bella che ho fatto durante l’estate? Ho visitato una mostra alla Fondazione Sandretto e Palazzo Madama”
(Daria)

“Avevamo già deciso come l’avremmo detto alla mamma. Era febbraio. Noi volevamo tornare a casa, in Moldavia. Qui tutto era troppo difficile e diverso. Poi abbiamo pensato a Gianluca [ndr. il regista che ha collaborato al progetto “A vision of my own”] e a quando ci aveva detto che per fare il video aveva bisogno di noi e delle nostre esperienze. Si aspettava un aiuto da noi. Siamo rimaste per lui e poi … siamo state promosse”
(Diana e Daria)

“Posso offrirmi come guida per quando hanno del pubblico che parla russo?”
(Daria)

“Quest’estate ho fatto 650 fotografie. Ho guardato il mio Paese con occhi diversi. Ho visto cose che prima non vedevo”
(Mirela)

“Quest’estate la mamma portava a casa La Stampa perché gliela dava la sua datrice di lavoro. Ho incominciato a leggerla e ogni giorno nella cronaca di Torino cercavo la pagina con le proposte dei musei.”
(Luis)

“Ad agosto ho fatto la babysitter ad Albenga. Sono andata a vedere il Museo Navale. Da quando ho fatto il video mi piace la storia, adesso le storie dei popoli e delle persone mi interessano”
(Paulina)

“A volte le cose che stiamo facendo non ci sembrano importanti. Solo dopo, quando le ripensiamo, ci accorgiamo che lo erano”
(Vadim)

“Quando sono tornata da sola alla Fondazione Sandretto tutti mi hanno riconosciuta. Abbiamo chiacchierato come se fossi stata a casa mia”
(Sara)

“A scuola storia dell’arte non mi piaceva proprio. Adesso non lo so. Forse mi piacerà”
(Alina)

“Se Torino ha speso tutti questi soldi per noi, se tutte quelle persone hanno lavorato con noi … allora significa che Torino ci vuole, che Torino non ci respinge”
(Mirela)

“La mia casa in Moldavia è chiusa e vuota: tutto è come l’abbiamo lasciato quando siamo partiti. È come un grande pacco. Pensavo che la mia casa era come un museo. Ma adesso non lo penso più. Perché quella casa diventi un museo occorre che qualcuno entri, che qualcuno faccia parlare gli oggetti e ascolti le nostre storie. Bisogna che qualcuno di vivo si interroghi sul nostro passato e che la nostra storia entri dentro la sua vita”.
(Vadim)

“Le prime volte che i miei compagni di scuola venivano a vedere il video mi sentivo male, avevo vergogna. Poi dalle loro reazioni ho capito che il nostro video per loro era come un film: la storia di un altro. E dopo non mi sono più sentita invisibile”
(Priscilla)

“Mi avevano detto che l’arte è la storia del sentire degli uomini e dei popoli. Adesso ho capito cosa vuol dire. In quel video c’è anche un pezzo della mia storia”
(Ahmed)

“Il giorno più bello è stato quando abbiamo giocato dentro l’Opera di Kirbeby. Eravamo diventati un gruppo. Anche se ormai siamo ragazzi potevamo anche fare i giochi che facevamo da bambini, come fanno i vecchi amici. Ed era strano scoprire che tutti i bambini del mondo fanno gli stessi giochi”
(Ahmed)

“Quando guardo un film, adesso, lo guardo in modo diverso. Mi penso al posto del regista o dello sceneggiatore o dell’attore …”
(Joel)

“Uno dei problemi che si hanno appena arrivati è che non possiamo usare la lingua per raccontare le nostre esperienze. Sempre a causa della lingua, all’inizio della scuola non possiamo prendere bei voti come a casa nostra e sembra che non capiamo niente. La realizzazione del video mi ha aiutata molto. E intanto ho imparato l’italiano. E poi sono stata promossa”
(Diana)

Le riflessioni dell’insegnante

Solo dopo la fine della scuola, nonostante le numerose sollecitazioni precedenti, un ragazzo mi ha fatto vedere le foto della sua famiglia. Si vedono i nonni a piedi scalzi che guidano l’aratro trainato dai buoi. C’è voluto un anno di lavoro perché quel ragazzo acquisisse fiducia sufficiente per mostrarmi le immagini della sua famiglia e dei luoghi della sua infanzia.  Durante lo svolgimento del progetto “A vision of my own” alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, provava ancora imbarazzo a mostrare il mondo differente da cui proveniva. Il messaggio che abbiamo sempre cercato di  passargli è che siamo, o siamo stati, tutti migranti. Ho raccontato con orgoglio ai ragazzi la storia dei miei genitori, emigrati in Francia a 12 anni nel 1932. Gianluca [ndr. il regista] ha raccontato dei suoi nonni venuti dal sud … Allora anche i ragazzi hanno incominciato a parlare delle loro storie. Hanno capito che la nonna analfabeta o il nonno che lavora nei campi non sono un elemento di pregiudizio per essere ammessi nei musei, per essere ascoltati con interesse o per saper collaborare.

“A vision of my own” è stata un’esperienza fondamentale per l’integrazione sociale, e quindi anche scolastica, dei ragazzi che vi hanno partecipato. I principi didattici utilizzati, propedeutici ad ogni apprendimento,  si possono schematizzare in pochi punti:
– innanzitutto  dimostrare al ragazzo aspettativa e considerazione per il suo apporto personale alla realizzazione del progetto (per loro qui tutto è nuovo: famiglia, lingua, scuola … e spesso si difendono sospendendo ogni criticità o, al contrario, opponendo una muta e cieca resistenza a tutto ciò che è diverso);
– fare emergere all’interno del gruppo di lavoro analogie storiche e geografiche con l’esperienza di ognuno (a quell’età pensiamo di essere unici in tutto), guidando i ragazzi all’ascolto dell’altro;
– cogliere le occasioni per dimostrare come tutte le arti e le scienze, tutte le persone e le società si siano arricchite nel confronto con la diversità (a quell’età il bisogno di omologazione è particolarmente forte)
– dare visibilità al lavoro dei ragazzi; offrire l’opportunità di parteciparlo ai compagni.
Si possono ottenere risultati straordinari quando i componenti del gruppo interagiscono tra loro e sono personalmente coinvolti nel compito da svolgere e verso gli altri membri.

Personalmente mi sono trovata molto bene con tutta l’equipe di progetto, con il regista e con la fotografa, con la responsabile dei servizi educativi della Fondazione Sandretto e con le guide:
– hanno avuto facilità a entrare in sintonia con i ragazzi;
– hanno dimostrato un enorme rispetto per le loro difficoltà e hanno saputo sostenerli, facendo loro superare la paura più frequente: quella del ridicolo;
– hanno camminato verso gli obiettivi sciogliendo ogni nodo che si è presentato;
– hanno saputo far emergere e valorizzare le loro precedenti esperienze;
– hanno applicato i principi base del cooperative learning, dall’ascolto reciproco in piccoli gruppi alla partecipazione plenaria; hanno portato i ragazzi all’uso consapevole del tempo a disposizione per il conseguimento delle varie tappe intermedie; al rispetto per gli altri e alla disposizione all’ascolto; li hanno guidati nel lavoro di collaborazione senza protagonismi (i team di lavoro avevano la caratteristica di condividere obiettivi comuni, e un’interdipendenza grazie alla quale i ragazzi hanno collaborato per condividere le risorse, sostenersi e assistersi a vicenda e festeggiare i successi comuni);
– la Fondazione è stata accogliente e ci ha permesso di muoverci liberamente negli spazi (mancava però un the da bere insieme durante gli incontri);
– nessuno ha badato al tempo extra speso per la realizzazione del progetto…

La frequenza alla sede museale, con ben 10 visite, è stata fondamentale: i ragazzi non erano più imbarazzati, sentivano quello spazio anche loro, avevano voglia di guidare il pubblico. In effetti Ahmed ha fatto da guida al Preside del nostro CTP, e Daria avrebbe voluto fare da guida a Gorbaciov quando venne in visita a Torino!
Anche  il percorso scuola–museo  (che è nella stessa circoscrizione) ci ha permesso di costruire consuetudini rassicuranti e di fare altre considerazioni.
Il Museo è diventato il luogo dove essere attivi e dare (non solo prendere per travaso). È diventato il luogo dove socializzare e farsi degli amici facendo esperienze insieme e raccontando, tutti, il nostro sentire più intimo. È stato il luogo dove la diversità dei ragazzi è stata un valore non solo per loro, ma anche per noi.
L’utilizzo di video e fotografia è stato un punto di forza del progetto: oltre a essere mezzi vicini al linguaggio adolescenziale, particolarmente adatti a chi ha poca dimestichezza con la lingua, si sono rivelati essenziali per accrescere la capacità critica, di osservazione e di selezione dei ragazzi.
Poter vedere più mostre nello stesso luogo: anche questo è importante. La prima volta che si entra in un museo, contenitore e contenuto si confondono; quando l’uno resta fermo e l’altro varia, l’attenzione si fa più selettiva.
Altrettanto importante è stata la gratuità: diversamente, non avremmo potuto permetterci di partecipare al progetto. Questi ragazzi sono tutti  iscritti a una scuola superiore quinquennale e alcuni hanno aspettative di laurea, ma i loro genitori, che forse sono diplomati o laureati nei loro Paesi, qui a Torino sono quelli che asfaltano le strade, accendono i forni di notte, badano ai nostri malati e ai nostri vecchi, fanno le pulizie nelle nostre case. I 7 euro necessari per entrare in certi musei corrispondono a un’ora del loro lavoro.
Credo che sarebbe molto utile inserire il nome dei ragazzi in una mailing list di proposte e inviti da parte del territorio (biblioteche, fondazioni e musei, circoscrizione di appartenenza…): i richiami consolidano gli apprendimenti, le opportunità per socializzare e il senso di inclusione. Servirebbe ad aprire il campo delle nostre aspettative: dal Progetto sulla via della Cittadinanza attiva.

Quando sono passata all’educazione per gli adulti, nel 1999, era l’inizio della nuova ondata migratoria, non più dal sud Italia ma dai Paesi “extracomunitari”. In questi dieci anni l’utenza è molto cambiata, accogliamo ormai anche la seconda generazione: i figli raggiungono i genitori che si distruggono di lavoro per farli studiare … proprio come facevano gli immigrati dal Veneto e dal Sud. Sono passata dal ciclostile a inchiostro (per incidere una matrice occorreva una serata) all’abuso delle fotocopie, dall’assenza di materiale didattico allo sperpero, dalle macchine fotografiche con i rullini bianco/nero alle videocamere, dai doppi turni ai laboratori, dall’Olivetti 22 al computer, dalla religione obbligatoria alla proibizione di fare il presepe a Natale, dalla sperimentazione del tempo pieno alla sua abolizione. Forse è per questo che cerco di trasmettere speranza ai ragazzi: so che tutto può cambiare molto in fretta, e che si può avere una vita densa e interessante indipendentemente dalle proprie origini.
I genitori dei miei ragazzi hanno fatto le guerre e hanno abbandonato le loro famiglie e le loro case, eppure sono qui che lavorano per i loro figli: questa è la speranza. E il Patrimonio Culturale del mondo aperto a tutti renderà più lieve la durezza della Storia.

Ornella Costan, insegnante del CTP "Drovetti", ha un curriculum da migrante. I nonni paterni (cadorini) e quelli materni (alessandrini) erano emigrati in molti Paesi europei e persino negli Stati Uniti. I genitori tornarono in Italia allo scoppio della seconda guerra mondiale, ma in Italia parlavano ... il francese. Immigrati anche qui? Ha iniziato a lavorare nel 1975, svolgendo attività di doposcuola presso una scuola elementare a Mirafiori nei prefabbricati. Superato il concorso per diventare di ruolo, stava stretta nei panni di insegnante unico, e lavorava per interclasse. La Città di Torino, con l'Assessore Dolino, offriva gratuitamente molti percorsi alla scoperta della città. La Galleria d'Arte Moderna fu la prima a proporre dei percorsi attivi per i bambini ... e anche gli insegnanti imparavano. Nel 1999 è passata all'educazione per gli adulti, le ex "150 ore" oggi divenute Centri Territoriali Permanenti