D.: Storicamente il patrimonio e il museo sono stati utilizzati per escludere chi “non appartiene” e per creare gerarchie tra diverse culture. In che modo la scuola può contribuire a ribaltare questa prospettiva?
La scuola assolve ad un mandato istituzionale che contempla l’inclusione, l’accoglienza e l’integrazione, quali presupposti per effettivi processi di educazione e istruzione. È quindi naturale che al proprio interno sviluppi strategie affinché ciascuno, secondo il proprio ruolo, si realizzi, trovi rispondenze con il proprio vissuto emotivo, personale e culturale, apprenda e sia veicolo di apprendimento: in quest’ottica, tutta la comunità scolastica si ritrova artefice e beneficiaria di processi di apprendimento e formazione che si autoalimentano con il contributo di tutti.
Parimenti la scuola assolve ad un compito di promozione culturale verso la società in generale e, in modo più specifico, verso il territorio di appartenenza. Sempre più diffusi sono gli intrecci tra l’istituzione scolastica e le diverse rappresentanze locali (pubbliche o private, amministrative, culturali, sportive…), che si completano vicendevolmente: non solo quindi la scuola “assorbe” dall’esterno sollecitazioni, richieste, contributi, ma rimanda alle famiglie e al territorio la propria proposta formativa e culturale, in termini di contenuti, scelte educative, spazi ed interazioni.
Patrimonio culturale, gerarchie, esclusione, rimandano alla tematica dell’integrazione socio–culturale di persone di nazionalità altra rispetto a quella del paese in cui vivono.
Nella scuola, per favorire questi processi di integrazione ed inclusione, si è passati da una fase emergenziale (in cui le scuole hanno avviato processi di riflessione, attuato azioni di mediazione, di ricerca, di sperimentazione, innanzitutto per cercare risposte didattiche e metodologiche) ad una fase di riflessione più articolata e raffinata di analisi dei bisogni, che non sono più solo di alfabetizzazione linguistica, ma si trasformano in bisogni di riconoscimento, accettazione, riappropriazione di modelli culturali diversi, riscoperta e riutilizzo della lingua madre, o della lingua della famiglia di origine.
Il ricco e articolato panorama di educazione all’interculturalità ci porta a percorrere sempre più strade in cui vengono bandite sia l’assimilazione tout court, sia la valorizzazione acritica, spesso enfatica o di carattere episodico, di alcuni aspetti delle culture “altre”, per imboccare la strada del riconoscimento e della implementazione sistemica di elementi culturali propri e altrui, tenendo presenti gli influssi della globalizzazione e delle opposte spinte localistiche.
La scuola sta già percorrendo percorsi di reciproca accettazione, prevede già modelli diversi rispetto all’esclusione o alla gerarchizzazione.
Lo sforzo, quindi, che deve compiere è di esportare tali modelli nei contesti territoriali in cui opera, lavorando con particolare attenzione “su e con” le famiglie, le associazioni culturali, il privato sociale e gli enti locali, divenendo così non solo beneficiaria di interventi, ma promotrice di cultura e di modalità per fare cultura.
D.: Dal tuo osservatorio professionale e personale, quali sono gli errori e gli stereotipi più ricorrenti in un percorso di educazione al patrimonio in chiave interculturale?
Affrontare l’idea che l’educazione al patrimonio transiti attraverso scelte di interculturalità deve innanzi tutto far riflettere sui modelli più generali di educazione all’interculturalità.
Di per sé la scelta di un modello inappropriato, cui facevo riferimento, costituisce già un errore in partenza: orientamenti di tipo assimilativo, di enfatizzazione folcloristica, o di rifiuto di una possibilità di confronto con modelli diversi, sono presupposti errati per la costruzione di percorsi di educazione all’interculturalità.
Altrettanto impropria trovo sia la scelta di percorrere strade di educazione all’interculturalità unicamente in risposta alla presenza di alunni stranieri, rifuggendo dall’idea che la cultura predominante, e che si tende a recepire come “propria”, sia già di per sé multiculturale.
Altro errore è quello di enfatizzare gli aspetti di padronanza linguistica quale unica chiave per un’effettiva integrazione, così come il passare da estremismi opposti: il rifiuto o la delega di qualsiasi aspetto inerente l’integrazione, da un lato, e l’esasperazione delle problematiche, fino a giungere ad una sorta di “medicalizzazione” forzata, che di fatto impedisce la naturalità degli eventi, dall’altro.
Nello specifico, per quanto concerne l’educazione al patrimonio, penso siano ricorrenti due errori, uno concettuale e l’altro metodologico.
La mancata concettualizzazione di patrimonio culturale, o meglio l’orientamento dello stesso verso la cultura dominante di appartenenza, costituisce il primo limite educativo, per cui si tende ad assumere l’idea di una monocultura quale unico punto di riferimento, senza ricorrere ad alcuna analisi critica per cogliere i segni evidenti di stratificazione presenti in ciascuna entità culturale.
A questo errore concettuale, si aggiunge un ulteriore rischio metodologico: il rifuggire da tutte le componenti affettive ed emotive attraverso le quali sollecitare qualsiasi esperienza interculturale, così come qualsiasi esperienza di apprendimento in genere.
Percorsi mirati di formazione e progetti integrati di ricerca-azione possono divenire la strada percorribile per superare i limiti appena esposti.
D.: Facendo riferimento alla tua esperienza nell’ambito del progetto “A Brera anch’io”, in che senso un percorso di educazione al patrimonio in chiave interculturale può diventare uno stimolo alla riflessione e alla rilettura della prassi didattica?
Un progetto di per sé costituisce un’importante sfida concettuale, poiché consente di intrecciare fra loro elementi didattici e formativi di alta qualità, promuovendoli mediante un percorso dotato di grande senso per gli alunni.
“A Brera anch’io” si connota come un progetto ad elevata complessità, in quanto presenta le seguenti caratteristiche:
– è curricolare e interdisciplinare, in quanto offre la possibilità di tracciare un continuum tra le diverse discipline e costruire un’unica trama sottesa alla definizione del curricolo di ciascun alunno;
– è interculturale poiché non risponde solo, o comunque non solo, ai bisogni primari di formazione, ma gioca le sue carte nella ricerca di sé e dell’altro da sé (nel gruppo classe, nel gruppo amicale, nel contesto familiare);
– è integrato nel territorio, in quanto la sua realizzazione è imprescindibile dall’apporto che la Pinacoteca di Brera (con il suo patrimonio, la sua storia, le sue componenti…) può dare.
Con tali premesse, il progetto si propone come occasione significativa di ripensare una prassi didattica tradizionale, orientandola verso una concezione di scuola quale laboratorio permanente, tenendo ferma l’idea che l’interculturalità non debba costituire un’occasione da proporre solo a classi con alunni di altra cittadinanza, ma divenga elemento portante della progettazione di tutte le scuole, per la promozione di quelle competenze di cittadinanza attiva e consapevole, ormai imprescindibili e fortemente raccomandate a livello europeo.
D.: Nel corso della sperimentazione di “A Brera anch’io”, quali difficoltà hai incontrato con i genitori, che sono così cruciali nel processo di educazione interculturale?
Le difficoltà rilevate rispetto ad un basso coinvolgimento delle famiglie nel progetto “A Brera anch’io” non sono riconducibili, a mio avviso, alle caratteristiche del progetto in sé; piuttosto sono espressione di alcune modalità consuete di atteggiamento delle famiglie verso la scuola, che oscillano tra forte coinvolgimento e interazione diffusa, e scarsa o nulla partecipazione, a seguito di disparati motivi: basso livello culturale, impossibilità ad occuparsi di aspetti inerenti la vita scolastica a causa di problemi economici e sociali predominanti…
Giustificazioni ricorrenti sono la mancata comprensione delle richieste, la mancanza di tempo, ma anche il timore di doversi mettere in gioco, confrontare, esporre, anche a causa della percezione diffusa della scuola quale ente giudicante o che invade, con domande personali, una sfera non di propria competenza.
Il progetto è invece costruito presupponendo, già in fase iniziale, un coinvolgimento attivo dei genitori e delle famiglie in generale, per cui la sfida sta nelle capacità dei docenti di trovare i giusti canali comunicativi e di sollecitazione per rendere partecipi non solo gli alunni del loro processo di apprendimento.
Non si tratta di una sfida facile, ma da percorrere con tenacia e insistenza, anche per promuovere corretti modelli di partecipazione attiva, continuità orizzontale e spaesamento costruttivo, attivando cioè situazioni in cui, almeno per una volta, siano gli adulti ad apprendere dai propri figli.