Il 16 aprile 2004, Castello D’Albertis Museo delle Culture del Mondo del Comune di Genova è stato inaugurato dopo 13 interminabili anni di lavori per il suo restauro edilizio. Ad aprire le porte al pubblico, cinque indigeni Hopi dell’Arizona, come segno della relazione che il museo aveva riallacciato con loro dal 2001, dopo che il Capitano D’Albertis si era recato in terra Hopi nel 1896, durante il suo secondo giro intorno al mondo. Per un mese a contatto con i visitatori e le scuole, hanno spiegato dalla loro prospettiva ed esperienza cosa vuol dire essere Hopi oggi, mentre le collezioni del museo raccontavano di altre storie e altri sguardi (1). Ciò è stato possibile sia perché alla base del nuovo museo – la cui inaugurazione, per volontà di un destino lungimirante, ha disubbidito alle previsioni che la annoveravano tra le opere da realizzare in occasione delle Celebrazioni Colombiane del 1992 – stava prendendo forma concreta una visione inclusiva e dialogica, sia perché la presenza degli indigeni Hopi era frutto di un rapporto, di una relazione umana, oltre che scientifica e istituzionale.
In questo modo si manifestava, con una potenzialità maggiore rispetto agli inizi del 1991, l’intuizione che la condizione essenziale per la sopravvivenza del museo è la sua trasformazione da monumento al colonialismo ad agente di dinamiche comunitarie e partecipate di sviluppo. Stare dentro ad un processo invece che dentro ad una istituzione genera esperienze e favorisce la concentrazione sull’uomo e non sugli oggetti, cui naturalmente si arriva, ma come pretesti, come generatori di ricordi ed elementi scatenanti di storie. Partendo dai tessili precolombiani per esempio, peraltro chiusi in casse ed immagazzinati per via del restauro, nel 1992 abbiamo creato laboratori di tessitura peruviana tradizionale con il telaio a cinghia in varie scuole elementari, mentre in seguito, con gli adulti, abbiamo dato vita a corsi di ceramica con la tecnica del colombino, ispirandoci ai reperti fittili precolombiani, oggi protagonisti dell’esposizione permanente del museo. Questi stessi oggetti, durante la visita al museo di una scolaresca di terza media unicamente costituita da alunni ecuadoriani (2), sono diventati lo spunto per affrontare la delicata questione della proprietà, da parte del museo, di beni culturali non provenienti dal suo territorio. Messa con le spalle al muro dal tono accusatorio di una ventina di ragazzini ovviamente ignari, ma altrettanto convinti, della ben nota domanda cliffordiana sulla legittimità di uno Stato di possedere ed esporre materiale appartenente al patrimonio culturale di un altro Stato, non hanno accettato spiegazioni fittizie o di circostanza, anche perché gli alunni non portavano con sé dall’Ecuador la conoscenza sulla funzione del museo e sulla sua utilità: per loro si trattava di un furto e basta. Inutile dire che molto tempo è stato dedicato a mettere a fuoco insieme la questione della repatriation, facendomi forte anche della buona pratica che potevamo esibire poco oltre, nella sezione del museo dedicata ai frammenti maya di Copàn in Honduras, di cui, avendo trovato la struttura di appartenenza nell’acropoli, abbiamo effettuato il calco in negativo consegnandolo in situ, per la realizzazione della copia da parte dell’Instituto Hondureño de Antropologia e Historia. La conclusione cui la classe giunse, rivelataci da una ragazzina quasi per sbaglio, che in fondo nel museo non c’erano gli originali, perché non potevano credere che tutto quel materiale non fosse falso, ci fece comunque capire la necessità di lavorare a fondo sul concetto stesso di patrimonio culturale, senza dare per scontato nulla, in un percorso di avvicinamento graduale per dissipare il sospetto e la evidentemente connaturata sfiducia nelle istituzioni, oltre che per sviluppare una certa sensibilità verso un uso sociale e culturale del patrimonio quale strumento di dialogo.
Se l’oggetto del museo non è ancora concepito dalle nuove generazioni come un bene a livello di identità ma solamente sul piano della rivendicazione economica e politica, lo spazio del museo come luogo di incontro viene invece richiesto dalle loro famiglie per la realizzazione di iniziative consapevoli e mirate al dialogo con la città, per esprimersi e per riunirsi. Mentre negli anni novanta bisognava andare di casa in casa a trovare le donne che cucinassero durante le rassegne di film di registi extraeuropei – peruviani, dell’Africa a nord e a sud del Sahara –, negli ultimi anni si ricevono non solo le proposte delle donne liguri latinoamericane di ospitare festival di cinema dei loro Paesi, ma anche un programma strutturato di attività collaterali come cibo, danze e sfilate di moda. Come se non bastassero più i ritrovi di un tempo legati all’accoglienza del mondo cattolico che offriva saloni e oratori, si è comunque raggiunta una autonomia rispetto a certe realtà aggregative cittadine e se ne cercano altre, dove si possa avere anche la libertà di dialogare con la città, di presentarsi e proporsi come attori paritari di una relazione culturale, percependosi portatori di una cultura e non solo di problemi economici, politici o sociali. In museo stesso abbiamo l’occasione di correggere il nostro errore etnocentrico di ritenerci dispensatori di conoscenza e verità, e impariamo a comporre insieme i programmi delle manifestazioni, se non addirittura a vederli crescere e arricchirsi sotto i nostri occhi, dopo le discussioni interne, le modifiche e i ripensamenti per le nostre obiezioni dovuti ad esempio a limiti di spazio e di tempo, o perché diamo per scontata da parte loro la conoscenza di procedure burocratiche e pratiche amministrative. Le donne africane, riunite in una associazione panafricana, che hanno accolto la nostra proposta di chiudere la seconda mostra africana del museo, ci hanno sorpreso con una sfilata di abiti travolgente, cui hanno aggiunto annotazioni culturali e di costume legate alla loro vita tradizionale ed alle modificate condizioni in cui vivono oggi, desiderose di togliersi di dosso il rischio di essere tutte genericamente annoverate tra la categoria delle prostitute africane che purtroppo invadono le strade di certe zone cittadine e non. Gli uomini africani delle diverse associazioni in cui sono ancora divisi a livello geografico, hanno dimostrato di non vergognarsi delle loro origini e credenze tradizionali, accettando di raccontare alcune parti delle cerimonie di iniziazione cui sono stati sottoposti prima della loro partenza per l’Europa, a differenza di quanto era accaduto in passato quando tutti cercavano di apparire cittadini e occidentalizzati, quasi per noi fosse un obiettivo da perseguire. L’Unione Immigrati Senegalesi ha invece proposto un programma di rievocazione della figura di Senghor e della negritude per celebrare l’indipendenza del proprio Paese attraverso interventi di storici senegalesi, come è avvenuto con alcuni docenti africani provenienti dalla Costa d’Avorio. Dopo vari tentativi con cantastorie africani non residenti a Genova, abbiamo anche individuato un bravissimo mediatore culturale senegalese, della casta dei griot, che ha ormai incontrato ogni tipo di pubblico del museo, dai ragazzi dei centri estivi alle scolaresche, dalle famiglie con bambini agli adulti durante un giorno di festa, intrattenendo e lasciando a bocca aperta tutti noi per le capacità affabulatorie ed oratorie unite ad un profondo radicamento nella tradizione orale del suo Paese.
Durante la “Semana Cultural Dominicana” invece, sopraffatti della quantità e portata degli interventi di storici e di vittime protagoniste della dittatura del Paese, non siamo riusciti a vedere in museo un numero adeguato di italiani interessati a partecipare; le giornate hanno rappresentato una delle rare occasioni in cui si sono visti prevalentemente cittadini immigrati, risultato anche questo comunque interessante.
Seppur meno appariscente, il dialogo è stato serratissimo anche in occasione delle pratiche museali più quotidiane come la schedatura delle collezioni, sia ad uso interno del museo che a uso esterno per il pubblico: gli Hopi dell’Arizona, che hanno scritto le didascalie delle nostre collezioni storiche esposte in museo, e i Borro del Mato Grosso brasiliano, con cui abbiamo creato una mostra temporanea dopo un lavoro sul terreno di sei anni, ci hanno rimandato ad una percezione dell’oggetto completamente nuova per le nostre consuetudini occidentali, preoccupate più della sua conservazione che della sua valenza di rappresentazione di una cultura.
Sentire insieme a un indigeno Cree delle Pianure nordamericane l’odore della pelle affumicata dei mocassini o il fruscio delle frange della casacca decorate con campanellini di metallo, dopo averlo visto in deposito riconoscere la presenza dei suoi antenati ed esprimere il bisogno di onorarli attraverso l’offerta di tabacco, non ha solo fornito informazioni che esulano dalle nozioni che si possono apprendere dai libri, ma ci ha anche stimolato all’uso dei nostri cinque sensi nel relazionarci con gli oggetti.
Al di là di prodotti tangibili come mostre o donazioni, è questo scambio di conoscenze, questa condivisione di cammino, questo riallacciarsi di rapporti tra cose e persone che diventa il senso di chi lavora in museo e non può limitarsi a trasmettere il sapere dietro agli oggetti a partire soltanto dalla sua prospettiva, privando il pubblico del sapere di coloro che gli oggetti li hanno costruiti ed intorno ad essi vedono trasformare le loro esistenze.
Note
(1) Per dirla con Chinua Achebe «anche il leone deve avere chi racconta la sua storia. Non solo il cacciatore».
(2) La popolazione ecuadoriana di Genova rappresenta la principale comunità di immigrati extraeuropei della città (e anche la più numerosa di tutta Italia), una presenza rilevabile soprattutto tra le donne ed anche a scuola.