Il testo riprende sinteticamente le riflessioni elaborate dall’Autrice nella pubblicazione finale del progetto europeo “MAP for ID”: S. Bodo, K. Gibbs, M. Sani (a cura di), I musei come luoghi di dialogo interculturale: esperienze dall’Europa, 2009.
“MAP for ID – Museums as Places for Intercultural Dialogue” è un progetto europeo biennale (2007-2009) finanziato dal “Lifelong Learning Programme” dell’Unione Europea. Nel suo ambito, trenta progetti pilota sono stati finanziati e realizzati nei musei dei paesi partner (Italia, Paesi Bassi, Spagna e Ungheria), molti dei quali alle prime armi sul fronte dell’educazione al patrimonio in chiave interculturale.
Da una prima disamina di queste sperimentazioni emerge una tale varietà in termini di maturità della “vocazione istituzionale” all’intercultura, di grado di complessità dei progetti, di finalità e obiettivi perseguiti, di strategie e strumenti impiegati, di esiti raggiunti, che qualsiasi tentativo di ricondurre i progetti pilota a una serie di indicatori comuni apparirebbe come una forzatura. Nei paragrafi che seguono sono quindi enucleate solo alcune tra le principali problematiche sollevate dall’analisi dei progetti pilota, la prima delle quali riguarda le accezioni di “dialogo interculturale” sottese ai singoli progetti.
Innanzitutto, dialogo tra chi? Ribadendo una tendenza già riscontrata a livello europeo a confondere il “dialogo” con l’“integrazione” dei nuovi cittadini nella cultura dominante o con la “compensazione” per la mancata (o distorta) rappresentazione delle loro culture d’origine negli spazi espositivi, alcuni tra i musei coinvolti in MAP for ID hanno individuato quali esclusivi destinatari dei loro progetti pilota individui e gruppi di origine immigrata. In molti casi questa tendenza riflette peraltro un nascente o crescente impegno sociale dei musei, consapevoli della necessità di «adeguare il progetto educativo del museo ai mutamenti sociali in atto» e di «valorizzare le proprie competenze in relazione a un pubblico diverso». (1)
Altri musei hanno tentato di andare un passo oltre e favorire l’interazione tra pubblici diversi per provenienza, background sociale e culturale, età, genere, indirizzo di studio o professione. Anche in questo caso le finalità perseguite nei progetti pilota hanno spesso una forte impronta sociale, ma con un’enfasi diversa rispetto al precedente gruppo di casi di studio, in quanto rivelano una tendenza a promuovere una nuova o maggiore coesione tra individui portatori di sensibilità culturali differenti, che si esprime, ad esempio, nel «favorire il contatto tra persone con diversi background culturali, producendo esperienze nuove e condivise».
Sarebbe peraltro semplicistico concludere che simili obiettivi siano alla facile portata di un museo, per quanto seriamente intenzionato a dare il proprio contributo ai processi di integrazione. Sono ancora molti i musei che dimostrano una certa riluttanza a individuare tensioni e conflitti che potrebbero essere affrontati in modo da cambiare atteggiamenti e comportamenti, abbracciando la molto più rassicurante retorica della “diversità come ricchezza”. I successi dichiarati richiederebbero d’altra parte un lavoro di ricerca longitudinale, in modo da monitorare attitudini e comportamenti dei partecipanti al di là del periodo di svolgimento dei progetti. Piuttosto di concentrarsi esclusivamente su questi successi, è dunque importante soffermarsi anche sulle difficoltà incontrate da alcuni musei nel coinvolgimento dei destinatari e nella implementazione dei progetti pilota. Poiché l’integrazione e l’inclusione culturale non sono processi esenti da contraddizioni e conflitti, è essenziale che questi ultimi – laddove si verifichino – non siano elusi o mascherati, bensì vissuti come opportunità di crescita individuale e istituzionale.
In altri casi ancora, l’enfasi è stata posta sul dialogo non tanto tra diversi gruppi di destinatari, quanto tra i destinatari e il museo, come testimoniano alcune delle finalità esplicitate nelle schede di progetto: fare del museo «non solo un territorio culturale di confronto, ma anche un luogo di progettazione condivisa e partecipata»; rendere i nuovi cittadini «protagonisti di una rilettura delle collezioni». Tra le problematiche sollevate da questi progetti pilota emerge con particolare forza quella relativa al livello effettivo di “paternità” del progetto: in quale misura i destinatari sono stati effettivamente consultati e cooptati nei processi di progettazione e implementazione?
Questo interrogativo ci conduce a considerare un’altra questione fondamentale, che riguarda non più gli attori, ma le modalità del dialogo.
Innanzitutto, come sono stati individuati e selezionati i destinatari, in che modo rilevati i loro bisogni e le loro aspettative? Alcuni musei hanno colto la partecipazione a MAP for ID come una importante opportunità per «prendere coscienza della realtà territoriale rispetto alle dinamiche interculturali e alle politiche di integrazione»; acquisire una «maggiore conoscenza della portata interculturale delle collezioni »; «aprirsi a soggetti e realtà finora estranee alla vita del museo». Per conseguire questi risultati, i musei hanno intrapreso attività di ricerca ex ante e altre iniziative propedeutiche.
D’altra parte, è indicativo che altri musei abbiano calato “dall’alto” i propri progetti, senza che gli obiettivi e le strategie prescelte fossero corroborate da una analisi approfondita delle percezioni, dei vissuti, delle esigenze dei destinatari. Ancora troppo spesso i musei tendono a sottovalutare l’importanza del lavoro di pre-progettazione e autoformazione ai fini della stesura di un buon progetto, radicato nelle esigenze delle comunità di riferimento piuttosto che negli interessi “istituzionali” e dei curatori, o in transitorie agende politiche.
Dalle fasi preliminari al vivo della progettazione: quali strategie sono state adottate per coinvolgere i partecipanti? Il punto non è tanto stilare un elenco delle metodologie e degli strumenti prescelti (che, come si è accennato in apertura, sono stati i più svariati, dalla scelta di temi generativi alla narrazione, dall’interazione con gli artisti all’utilizzo delle tecniche teatrali), quanto piuttosto riflettere sul perché di certe scelte. Un solo esempio significativo: l’utilizzo di un approccio tematico alle collezioni è pensato come una modalità alternativa di trasmettere contenuti o saperi disciplinari, o è finalizzato a «potenziare le capacità dei destinatari di orientarsi in maniera autonoma e critica nella realtà circostante, e di attivare dispositivi utili per analizzare e raccontare la propria esperienza nel mondo»?
Sottesa a tutte le tematiche sin qui affrontate vi è una questione di fondo: a quale modello di policy sono informati i progetti pilota? La relazione (o il dialogo) che un museo sceglie di stabilire con e tra i propri pubblici non è infatti una questione semplicemente strategica e metodologica, ma anche e innanzitutto “politica”.
Uno dei dati più interessanti emersi dalla disamina delle esperienze realizzate nell’ambito di MAP for ID riguarda la difficoltà che ancora molti musei incontrano ad andare oltre il tradizionale modello di sviluppo dell’accesso. In questo modello, il museo “apre le porte” a pubblici diversi da quelli tradizionali, in modo che anch’essi possano godere di un patrimonio “dato”, sino a quel momento a loro precluso.
Se tuttavia accettiamo la definizione di “dialogo interculturale” sottesa all’intera esperienza di MAP for ID è evidente che vi è una ulteriore, impegnativa scelta politica che i musei devono compiere: quella dell’inclusione culturale. In tale modello, l’enfasi è posta sul coinvolgimento attivo degli individui, che si traduce nella loro opportunità di accedere al museo non solo come “pubblico”, ma anche come “attori” partecipi a pieno titolo dei processi decisionali, creativi, di costruzione e negoziazione dei significati.
Un traguardo raggiungibile solo a condizione che il museo si dimostri in grado di diventare un’istituzione meno autoreferenziale, più radicata nella vita delle comunità di riferimento, più aperta alla sperimentazione di nuove modalità di partenariato, alla condivisione di strategie e di obiettivi, all’inclusione di nuove voci, competenze e narrazioni.