Le nostre città, palinsesti aperti in cui ci si scambia la memoria

Francesco Mannino
Officine Culturali | Catania
2018

«E tu sai che nel lungo viaggio che ti attende,
quando per restare sveglio al dondolio del cammello o della giunca
ci si mette a ripensare tutti i propri ricordi a uno a uno,
il tuo lupo sarà diventato un altro lupo,
tua sorella una sorella diversa,
la tua battaglia altre battaglie,
al ritorno da Eufemia, la città in cui ci si scambia la memoria
a ogni solstizio e a ogni equinozio».
Italo Calvino, Le città invisibili
Grazie al progetto “Le nostre città invisibili” (1) sono stato coinvolto come formatore/mentor di un corso rivolto a cittadini stranieri per la figura di accompagnatore interculturale. Bella la premessa di Flavia Monfrini (local coordinator del progetto su Catania per Trame di Quartiere, insieme a Salvatore Maio di Oxfam Italia) al momento del coinvolgimento: non si sarebbe trattato di formare surrogati di guide turistiche, bensì di “usare” il territorio urbano in un modo nuovo, sperimentale, dialogico, attivo. Il grande obiettivo? Contribuire al contrasto di rappresentazioni scorrette e discriminanti delle migrazioni e della diversità culturale. L’obiettivo intermedio? Creare legami, nuove relazioni tra i cittadini stranieri partecipanti e i luoghi, e le persone di quei luoghi, e gli usi di quei luoghi, così da ampliare sì la conoscenza, ma anche tanta tanta consapevolezza sul perché le città di destinazione (o di passaggio) sono fatte così, da dove vengono quelle città e quelle comunità, come sanno interagire con i loro nuovi cittadini, a che futuro si preparano. E rafforzare le competenze linguistiche in italiano, che non è poco.
Si sarebbe trattato di dotare i partecipanti certamente di bagagli di conoscenza adeguati (e da qui il coinvolgimento di storici, urbanisti, guide turistiche), di metodi di narrazione e comunicazione verbale e non verbale appropriati (con l’apporto di esperti di drammatizzazione, ad esempio), ma anche di coinvolgerli in esperimenti di mediazione dinamica sul campo, attivata da percorsi finalizzati a stimolare innanzitutto l’emersione delle percezioni e delle storie personali.
Perché – come mi insegnano le curatrici di questo sito – l’approccio della narrazione in chiave autobiografica è una potente risorsa per la cittadinanza culturale, in quanto permette di aggredire, aggirare, azzerare quelle barriere che spesso si frappongono tra noi e le costruzioni culturali fatte da altri, che esse siano opere d’arte, manufatti tecnici o artigiani, edifici, spazi urbani, pratiche sociali. Confrontarsi con questo “altro” partendo dal “nostro” o dal “mio” è uno straordinario strumento di confronto, a volte di scontro, in certi casi di rapida connessione.
L’esperienza, frutto di un combinato speciale dello studio di lavori altrui (A. Bollo, A. Gariboldi, Io non vado al museo! Esplorazione del non pubblico degli adolescenti, 2008; A. Bollo, 50 sfumature di pubblico e la sfida dell’audience development, 2014; S. Bodo, S. Mascheroni, M. G. Panigada, Un patrimonio di storie. La narrazione nei musei, una risorsa per la cittadinanza culturale, 2016; A. C. Cimoli, Che cosa vedi? Musei e pubblico adolescente, 2017) e di proprie sperimentazioni sul campo (servizi educativi e collaborazione con Save the Children di Officine Culturali, Catania), ha consentito di incontrare i bisogni dei curatori del progetto e di convergere su un approccio comune.
Non si trattava solo di rendere la conoscenza dei percorsi urbani precedentemente elaborati ancora più approfondita grazie alle visite-sopralluoghi nelle diverse tappe; si trattava piuttosto di trasformare la conoscenza in esperienza, e l’esperienza in azione di gruppo. Si trattava anche di stimolare la pratica additiva delle proprie suggestioni personali, come nuovo livello semantico da sovrapporre ed intrecciare con ciò che veniva man mano incontrato lungo il percorso, che fosse l’anfiteatro romano, un pezzo del mercato (A Fera o Luni), un bastione antico, i palazzi di vetro delle banche contemporanee, i disperati che vivono sotto quei portici, un carrubo al centro di un capolinea di un bus, il grande murale di San Berillo nel quartiere omonimo, il palazzo nobiliare dei Biscari, la Moschea o semplicemente una piazza con delle panchine.
Dopo un focus group orientato a rompere il ghiaccio e a raccogliere le prime suggestioni sul rapporto con una città non propria per nascita, ma per destinazione, il gruppo è partito da Palazzo de Gaetani (sede dell’associazione Trame di Quartiere, nel cuore del quartiere San Berillo) per inseguire le tappe precedentemente stabilite. L’approccio adottato è stato prevalentemente quello di una lettura paesaggistica del territorio urbano e dei suoi “pezzi”, che da diacronico si faceva sincronico e viceversa. Su questo intreccio che invitava i partecipanti a guardare il tutto come un tessuto multidimensionale, e non solo le parti come emergenze architettoniche o archeologiche, si sono innestate quindi due direttrici: la narrazione autobiografica e la comparazione funzionale.
La prima ha consentito di densificare attorno ad alcuni dei luoghi incontrati le storie dei partecipanti, che potevano essere direttamente connesse ai significati canonici (“ho fatto già una visita in questo sito archeologico”, Abdellah dal Marocco) o del tutto “altre”. Ne elenco alcune per cogliere il senso di quanto appena detto: “questa è la piazza dove mi sono fermato subito dopo lo sbarco al porto” (Lamin dal Gambia); “alla Fiera ci ho lavorato, ma poi ho abbandonato per la scuola” (Alpha Oumar dalla Guinea Conakry); “le carrube di quest’albero [a Piazza della Repubblica, capolinea AMT] sono un ingrediente fondamentale per l’alimentazione del mio paese” (Abubakar dalla Liberia); “queste rovine [Anfiteatro Romano] mi ricordano una caserma nel mio paese, simbolo del primo colonialismo europeo: l’ho visitata con la scuola” (Lamin dal Gambia); “questi alberi in piazza Falcone sono africani” (Oumar dalla Guinea Conakry)…
La seconda ha permesso di comprendere il senso di alcune architetture o di spazi e oggetti urbani, lavorando sulla comparazione delle funzioni che essi svolgono nei diversi paesi e nelle diverse culture di provenienza. Un ottimo lavoro in tal senso è stato svolto da Alpha Oumar dalla Guinea Conakry, minore che ha presenziato all’incontro e attualmente in borsa lavoro presso Officine Culturali, con cui sta sperimentando non solo intense attività di accoglienza dei fruitori del Monastero dei Benedettini (sede universitaria e complesso architettonico di cui Officine cura i servizi di fruizione e accessibilità universale), ma anche progressivamente la sperimentazione del mestiere di mediatore culturale, per cui è molto portato.
La comparazione funzionale è un ottimo strumento di mediazione nell’ambito del patrimonio, perché consente di superare le barriere culturali (“io al mio paese non ho niente del genere”) attivando interesse per il cuore delle cose (che siano alberi, colonne, chiese, fontane o antiche vestigia), che poi è fondamentalmente il motivo per cui esse sono state create, o per gli effetti che producono nella vita degli uomini. Non solo: comparare le funzioni permette di tornare alla narrazione in chiave autobiografica, aprendo grandi spazi al racconto di sé, e fortificando le relazioni che ognuno di noi crea con luoghi, edifici e spazi pubblici e privati, magari in un primo momento intimamente o timidamente, e poi, grazie ad attività di mediazione, come relazione sociale.
Durante il percorso la discussione è spesso deviata dal paesaggio ai racconti, al confronto, alle memorie, ai silenzi carichi di senso. Fermarsi a parlare delle città del mondo come destinazioni auspicate (tutti, ognuno con le sue gerarchie), o condividere delle considerazioni sul degrado incomprensibile di parti della città (“una città che non vuole completarsi”, Osuman dal Gambia), ha fatto della giornata un ennesimo momento di confronto interculturale, che – ovviamente – mi ha trasformato da formatore in interlocutore di storie umane.
Davvero il senso dei luoghi è costituito solo dalla densità del loro passato? Credo che esperienze come questa (e come molte altre contenute nei volumi sopracitati) dimostrino che il genius loci (e il patrimonio culturale con esso) è in realtà un palinsesto, certamente ancorato ai suoi strati precedenti che costituiscono, tutti insieme, il complesso presente che ci è stato consegnato: palinsesto che però deve essere tenuto aperto a nuovi innesti, nuovi piani di senso, nuove contaminazioni. Mi ha colpito che il granitico Anfiteatro Romano abbia scavato – credo per la prima volta – nella memoria di un giovanissimo gambiano, arrivando fino ad una nozione scolastica frutto di una visita in un forte militare nel suo Paese, che parlava di primo colonialismo europeo. Non è cambiato di una virgola, il nostro Anfiteatro: ma sono cambiate (aumentate) le domande che mi farò ogni volta che gli passerò vicino. Credo anche a Lamin, sempre che decida di fermarsi a Catania. E con lui vorrei tornarci, attorno e dentro, discutendo di romani ma anche di nuovi coloni…
Un’ultima considerazione: progetti come “Le nostre città invisibili” sono necessari. E non solo nella loro forma di progetto temporaneo, che inizia e che finisce in un ciclo ben determinato: sono necessari perché ogni giorno consentono di connettere le vite di persone che vengono da mondi differenti senza puntare ad appiattirne le differenze, ma riuscendo a farle confrontare tra di loro sul sostrato permeabile di città già dense di significati. E ciò fa di attività come queste un’indispensabile componente della acquisizione di consapevolezza civica e un formidabile strumento di inclusione e coesione sociale, che svela l’importanza dei luoghi sviluppando rispetto non per sacralità indotta, ma per un valore d’uso che si connette al valore già attribuito dalle comunità residenti. Valore su valore, che se ben mediato diventa nuovo valore: interculturale, inclusivo, condiviso e potentemente proiettato al futuro.
Ma servono tempo, professionisti, luoghi adatti, strumenti, altrimenti il rischio del paradosso inclusivo è in agguato. Di cosa si tratta? È quello che accade quando grazie a pratiche di coinvolgimento attivo e di mediazione culturale si attivano aspettative grandi e potenti riguardo a ciò che ognuno può fare quando incontra l’innovazione sociale ben fatta, per poi restare enormemente delusi alla conclusione dei cicli di progetto, quando gli operatori sono costretti a tirare i remi in barca e a fermarsi per la mancanza di risorse. Succede spesso, se non sempre, ed è praticamente una regola aurea: maggiore è la carica innovativa di progetti inclusivi ad alto coinvolgimento attivo di persone normalmente escluse, maggiore è la delusione di quelle persone quando il progetto si arresta perché appunto era un progetto, non una attività permanente. Mi chiedo, alle volte, cosa sia meglio: attivare quelle aspettative per poi deluderle, o non partire proprio? Ne parlerò con Lamin sulla panchina di piazza Majorana, vediamo che mi dice…
Note
(1) Il progetto “Le nostre città invisibili” è finanziato dalla AICS – Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, e realizzato da Fondazione ACRA con partner Oxfam Italia, Fondazione Pubblicità Progresso, Fondazione ISMU, Viaggi Solidali Società Cooperativa Sociale, Casba Società Cooperativa Sociale, Cooperativa Sociale Progetto Con-Tatto, Associazione Next Generation Italy, Associazione Trame di Quartiere, Comune di Milano, Città di Torino, International Research Centre on Global Citizenship Education (Università di Bologna).
Francesco Mannino (1973) PhD in storia urbana, vive a Catania ed è co-fondatore, presidente e project manager di Officine Culturali, l'associazione che si occupa tra l'altro delle attività di fruizione e di accessibilità universale del Monastero dei Benedettini, sede universitaria, complesso architettonico tardo-barocco (UNESCO) e spazio pubblico tra i più permeabili della città, dove si sperimentano attività volte allìampliamento della partecipazione culturale. Dal 2016 collabora stabilmente con "Il Giornale delle Fondazioni", dal 2018 è membro del consiglio direttivo di Federculture.