Un progetto di museografia partecipativa: “[S]oggetti migranti / READ-ME 2”

Rosa Anna Di Lella
Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini” | Roma
2012

Il 17 novembre 2010, un gruppo di persone eterogeneo per nazionalità e formazione professionale sedeva al tavolo della biblioteca del Museo Nazionale Preistorico Etnografico “L. Pigorini” per dare avvio, con una riunione plenaria, al progetto europeo “[S]oggetti migranti / READ-ME” – Réseau européen des Associations de Diasporas & Musées d’Ethnographie (1).
Curatori di musei etnografici e rappresentanti/esponenti di associazioni di migranti arrivati dai diversi paesi europei partner del progetto si incontravano per confrontarsi sulle metodologie e sulle modalità di lavoro comune per poi ritornare nei diversi luoghi di provenienza e dare avvio ad un lavoro di collaborazione.

 

“READ-ME 2” al Museo Pigorini
Il gruppo museo-diaspora del Museo Pigorini si è costituito nel periodo compreso tra settembre e dicembre del 2010. Nel gennaio 2011 è cominciata la “progettazione partecipata”: il gruppo si è incontrato mensilmente lavorando con la metodologia del focus group a partire dalla presentazione museografica di una serie di pezzi delle collezioni del museo, sui quali si è cercato di riflettere attraverso forme di interpretazione narrativa, vale a dire attraverso la proiezione degli oggetti sul vissuto personale delle persone coinvolte.
Nel luglio del 2011 il gruppo di lavoro si è coordinato per la messa a punto di una scrittura collettiva finalizzata alla definizione del percorso museografico della mostra “[S]oggetti migranti”, che costituirà il momento conclusivo del progetto (Museo Pigorini, settembre 2012 – marzo 2013) e rifletterà le scelte e gli orientamenti emersi durante la progettazione partecipata tra professionisti di musei ed esponenti delle associazioni della diaspora, aprendosi anche ai contributi dei musei / delle associazioni partner.
Il 21 gennaio 2012, durante uno dei laboratori tecnico-scientifici previsti al progetto
, il gruppo di lavoro romano è stato protagonista di un primo momento di restituzione e comunicazione pubblica dell’anno di lavoro comune.

Perché [S]oggetti migranti
Il titolo dato al progetto, risultato di un’evidente contrazione tra le parole soggetto e oggetto, nasce da una modalità soggettivante di guardare al patrimonio museale, alla ricerca delle strette connessioni che legano le persone alle cose e che fanno sì che queste ultime mostrino i segni delle soggettivazioni e delle biografie di chi li ha avuti con sé.
La dimensione della “migrazione” dei s-oggetti vuole inoltre costruire un cortocircuito concettuale che sia da invito alla re-interpretazione degli oggetti del patrimonio museale – migrati (venduti, sottratti, scambiati, etc.) dai loro territori di origine per poi essere accolti nel museo – a partire dalle storie “migranti” dei soggetti che oggi da quei territori migrano per stabilirsi in Italia.

Oggetti e soggetti: zone di contatto
Il processo partecipativo è stato avviato da una riflessione su alcuni oggetti del museo Pigorini. Durante i primi mesi di lavoro (gennaio/febbraio 2011), due sono stati gli oggetti su cui il gruppo ha iniziato il dialogo: l’Idolo Taino (3) e la Barca della Terra del Fuoco (4), che hanno costituito una sorta di presentazione “simbolica” gestita e proposta dai curatori del museo per entrare nell’istituzione museale e per introdurre i temi del progetto: la migrazione degli oggetti, la contaminazione di visioni del mondo, il tema del viaggio come trasversale a oggetti museali e a persone. Gli oggetti presentati negli incontri successivi (marzo/luglio 2011), scelti insieme agli esponenti delle associazioni, hanno seguito il percorso concettuale che la progettazione partecipata stava facendo emergere, in un’altalena tra concetti e oggetti, testimonianze personali e collezioni museali, innescando un meccanismo di circolarità tra la presentazione del patrimonio, le riflessioni dei partecipanti al gruppo di lavoro e il procedere della progettazione partecipata.
Le presentazioni degli oggetti hanno quindi creato una zona di contatto, aprendo a tutto il gruppo di lavoro la condivisione dei saperi museali e costituendo la struttura che ha ritmato lo scambio della progettazione condivisa.

Procedure di apertura del museo
Diverse sono state le “procedure” messe in campo per agevolare il processo di avvicinamento all’oggetto e alla sua dimensione immateriale: presentazioni narrative del patrimonio conservato nei depositi del museo, visite mute alle sale espositive con discussione successiva, enfatizzazione dell’approccio biografico e sollecitazione di memorie personali.
L’andare nei depositi per vivere la dimensione dietro le quinte del museo è stato voluto dai curatori al fine di operare una desacralizzazione del museo inteso come tempio del sapere e di portare il gruppo di lavoro all’interno dei dispositivi classificatori e dei meccanismi di disposizione gerarchica degli oggetti, partendo dalla consapevolezza del valore politico dell’organizzazione spaziale degli spazi museali (Sandell 2005) e delle modalità di riproduzione di forme passive di accesso al museo rintracciabili anche nella distinzione tra spazi aperti e chiusi al pubblico su cui si costruisce la grammatica dell’istituzione museale modernista (Hooper-Greenhill 2003).

L’adozione degli oggetti: cambi di rotte
Il progetto costruisce il suo perno intorno all’adozione di oggetti del museo da parte delle associazioni. L’adozione è intesa come una forma di accesso al patrimonio attraverso modalità che portino i migranti ad avvicinarsi agli oggetti senza dover necessariamente indossare la “divisa della cultura d’origine” (Aime 2004). Nelle prime fasi del progetto, gli oggetti proposti dai curatori non sono stati scelti in base a criteri geografici, ma – proprio per agevolare una adozione a-geografica – a partire dalla loro “risonanza”, vale a dire dai significati che da essi potevano scaturire in relazione alla mappa concettuale emersa dai primi mesi della progettazione partecipata. Le divise identitarie però sono riemerse, sia in atteggiamenti impliciti ed espliciti dei curatori, sia a partire da considerazioni dei migranti che, come un’analisi più dettagliata del processo mostrerebbe, hanno espresso il bisogno di lavorare con oggetti dei propri paesi di origine in funzione di una loro proposizione alle reti associative di riferimento, rimarcando un sentimento di appartenenza che in una fase progettuale si era cercato di evitare e configurando un cambiamento di rotta nelle metodologie adottate.

La mia percezione
Nella mia percezione, il progetto READ-ME è stato – relativamente alla prima edizione – e continua a esserlo – nella seconda – un momento in cui il museo riflette su se stesso; un’occasione, cioè, per il gruppo di lavoro interno (curatori, collaboratori e rappresentanti della diaspora) per costruire e nel contempo guardare riflessivamente al processo di costruzione del patrimonio conservato al museo. Il progetto, quindi, costituisce una macchina per attivare – e uno specchio per analizzare – le autorappresentazioni e le specifiche pratiche museali emergenti dal confronto tra museo e diaspora.
Il meccanismo messo in moto è costituito da un insieme di fattori collocati su piani di analisi differenti, che abbracciano da un lato gli aspetti contingenti, le necessità logistiche relative all’organizzazione degli incontri, l’avvicinamento e le frizioni relazionali insite nel processo di creazione del gruppo di lavoro (chiusure, diffidenze, ansie reciproche vs. costruzione di un senso generale di fiducia), dall’altro toccano i punti nevralgici e critici di retaggi storici stratificati che definiscono le tradizioni e l’anima del Museo Pigorini in quanto istituzione (il suo decentramento rispetto al centro della città e la conseguente debolezza nella relazione con il territorio; la compresenza di un settore etnografico e di un settore preistorico; le politiche istituzionali, il rapporto con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, etc.), gli orientamenti, le metodologie di lavoro e le attitudini personali dei diversi curatori che partecipano al progetto, le modalità con cui è organizzato il lavoro interno (la divisione del museo in settori disciplinari e la mancanza di comunicazione tra essi, la debolezza di un sistema integrato di progettazione e condivisione del lavoro, la mancanza di una definita politica di istituto e/o di una missione unitaria e univoca).
Le modalità con cui il progetto “[S]oggetti migranti” è oggi condotto e gestito nel Museo dipendono non solo dagli impegni e dalle intenzioni programmatiche iscritte nel progetto stesso, nonché dalla relazione con i partner europei; esse risentono del “contesto Pigorini”, costituito da un istituto (la storia, l’organizzazione del museo) e da persone che vi operano (equipe del progetto, settori collegati, etc.). Solo a partire da questa prima contestualizzazione è possibile analizzare l’incontro dell’equipe del Museo Pigorini con le equipe dei musei partner e con i rappresentanti delle associazioni coinvolte nel progetto, e comprendere le pratiche di rappresentazione e auto-rappresentazione del museo come istituto-persone, per poi proiettare quest’ultimo in contesti più ampi che comprendono gli ambiti disciplinari antropologici, le produzioni culturali proprie del settore museografico, le politiche culturali europee in materia di differenza culturale.

Utopie e ansie da vuoto: criticità e potenzialità
Un elemento critico del progetto è quello che potrebbe definirsi ansia da vuoto della progettazione partecipata che, dal mio punto di vista, non ha lasciato indenne nessuno dei partecipanti al gruppo di lavoro (me compresa) e si incardina sulle seguenti domande/preoccupazioni: riusciremo noi curatori a coinvolgere le diaspore? Riuscirà a passare il messaggio del progetto? Detto altrimenti, riusciremo a diventare una “comunità interpretativa”?
La condizione di capofila del progetto, le poche risorse finanziare, le difficoltà di incontrarsi e/o la paura di non incontrarsi su un terreno comune hanno innescato in alcuni momenti del progetto un clima generale di ansia che si è tradotta nella generalizzata sensazione di non avere abbastanza tempo a disposizione, di non riuscire a spiegare pienamente le finalità del progetto, di non arrivare a comunicare attraverso la mostra il senso dell’operazione di progettazione partecipata, e così via.
I vuoti che la progettazione partecipata lasciava e lascia intravedere sono stati costantemente riempiti da proposte, indicazioni, spiegazioni, programmi. Da un lato questo ha determinato una grande ricchezza e vivacità di contributi, stimoli e proposte; dall’altro non ha reso sempre possibile un confronto più sereno, che avrebbe potuto facilitare l’ascolto reciproco, spesso soffocato dai ritmi incalzanti che il gruppo ha dato e sta continuando a dare alle giornate dedicate alla progettazione partecipata. Alla fine di una delle nostre dense e ricche riunioni, Godefroy Sankara mi confessava: «Mi sembra che quando vengo qui, voi abbiate l’ansia di somministrare una medicina che cura tutte le malattie». Credo che con questa espressione Godefroy descriva perfettamente il clima che si è venuto a creare, contribuendo alla presa di coscienza degli aspetti forse da migliorare nella progettazione comune e negli atteggiamenti del gruppo di lavoro.

Diversi sono lati critici del progetto: familiarità/indifferenza verso il museo; capacità/incapacità delle associazioni di coinvolgere la “comunità”; capacità/incapacità del museo di dialogare con le associazioni; rappresentatività/non rappresentatività delle collezioni; rappresentatività/non rappresentatività delle associazioni coinvolte. Le problematicità, però, appaiono sotto un altro aspetto e possono essere relativizzate solo riconoscendo fino in fondo la posta in gioco. Dal mio punto di vista, ciò vuol dire non lasciarsi prendere dai vuoti della progettazione partecipata, dalle difficoltà di coinvolgimento e di armonizzazione delle diverse componenti e personalità, dalle risposte/posizioni apparentemente non “adeguate” o dalle preoccupazioni legate ai “risultati” espositivi del progetto. Insomma, da tutta una serie di apparenti disarmonie e distonie che, se viste a partire da una attenzione al processo di dialogo e da una prospettiva/utopia ampia – l’Italia e le sue questioni dell’immigrazione, l’Europa e la sua ricerca di un demos… – ma allo stesso tempo circostanziata – il Museo Pigorini e le persone che concretamente si stanno mettendo in gioco –, iniziano a diventare materia di riflessione, vivacità, scambio tra persone implicate in un movimento di incontro, conoscenza e riflessione sul terreno comune museo-diaspora.


Note
(1) Il programma “[S]oggetti migranti / READ-ME 2”
costituisce il rilancio e il proseguimento di un primo progetto READ-ME avviato nel 2007 per iniziativa del Musée royal de lAfrique centrale di Tervuren (Bruxelles) in collaborazione con Musée du Quai Branly di Parigi, Etnografiska Museet di Stoccolma e Museo Nazionale Preistorico Etnografico “L. Pigorini”.
(2) Costituito da: Egidio Cossa (Museo Pigorini), Vito Lattanzi (Museo Pigorini), Ndjock Ngana (Kel’Lam Onlus), Carlo Nobili (Museo Pigorini), Ricardo Macìas (Comunidad catolica mexicana de Roma), Beatriz Ochante (CPR – Comunidad Peuana de Roma), Sandra Joyce Bellia (Comunidad catolica mexicana de Roma), Loretta Paderni (Museo Pigorini), Grazia Poli (Museo Pigorini), Godefroy Sankara (Buudu Africa), Donatella Saviola (Museo Pigorini), Marco Wong (AssoCina).
(3) Figura con maschera. Cultura Taino, Hispaniola, fine XV – inizio XVI secolo. Collezione Ferdinando Cospi, n. inv. 4190 – Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini”.
(4) Canoa, 1896, Terra del Fuoco, Yamana, coll. Luigi Amedeo di Savoia, n. inv. 56168 – Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini”.

Riferimenti bibliografici
Aime M. (2004), Eccessi di culture, Einaudi, Torino.
Bodo S. (2009), «Sviluppare “spazi terzi”: una nuova sfida per la promozione del dialogo interculturale nei musei», in A. M. Pecci (a cura di), Patrimoni in migrazione. Accessibilità, partecipazione, mediazione nei musei, Franco Angeli, Milano.
Bodo S., Cifarelli M. R. (a cura di) (2006), Quando la cultura fa la differenza. Patrimonio, arti e media nella società multiculturale, Meltemi, Roma.
Hooper-Greenhill E. (2005), I musei e la formazione del sapere. Le radici storiche, le pratiche del presente, Il Saggiatore, Milano.
Hooper-Greenhill E. (2000), «Nuovi valori, nuove voci, nuove narrative: l’evoluzione dei modelli comunicativi nei musei d’arte», in S. Bodo (a cura di), Il museo relazionale. Riflessioni ed esperienze europee, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino.
Lattanzi V. (2009), Musei etnografici, patrimoni e [S]oggetti migranti, in “Lares”, anno LXXV, n. 3, settembre-dicembre.
Sandell R. (2005), «Constructing and communicating equality. The social agency of museum space», in S. MacLeod (a cura di), Reshaping Museum Space. Architecture, Design, Exhibitions, Routledge, London.

Rosa Anna Di Lella studia antropologia culturale all'Università La Sapienza di Roma e si laurea nel 2003 in Etnologia delle culture mediterranee. Inizia a interessarsi di musei e patrimoni demoetnoantropologici nel 2004, quando inizia la sua collaborazione con la sezione etnografica del Museo Nazionale Preistorico Etnografico "L. Pigorini" di Roma. Nel 2011 si diploma alla Scuola di Specializzazione in beni demoetnoantropologici dell'Università di Perugia. Attualmente è assistente di ricerca presso il Museo Pigorini nell'ambito del progetto europeo READ-ME - Réseau européen des Associations de Diasporas & Musées d'Ethnographie