Il museo, scrive Bataille, è lo specchio colossale in cui ci siamo rappresentat_ e riconosciut_ in Europa, anche attraverso il riflesso dell’immagine di altre culture, che abbiamo messo in mostra costruendone un’immagine inferiorizzante.
È proprio intorno alla figura dello specchio che si snoda questo libro, che nella prima parte guarda, nella seconda parte penetra e infine nella terza parte oltrepassa lo specchio-museo. Una delle domande che si affacciano subito con urgenza è: chi di noi oggi si riconosce in questo specchio? Probabilmente chi sente di appartenere alla comunità immaginata che lo specchio-museo costruisce. Il che fa emergere l’aspetto tautologico di questo processo: mi riconosco se appartengo, appartengo se mi riconosco. E le persone o le comunità che in quello specchio non si riconoscono?
Questo volume nasce da un’urgenza e si avvita intorno a una serie di domande, che riguardano le necessità di riconoscere e trasgredire la colonialità che a tutt’oggi continua (spesso non vista, non riconosciuta, rimossa) ad infestare i nostri spazi pubblici e i luoghi di costruzione del sapere: le strade con la loro odonomastica, le architetture, la monumentalità, i musei, la scuola, l’università, i nostri stessi corpi. Scrive Anna Chiara Cimoli nell’introduzione: «che cosa succede della memoria che non si incarna? Che cosa succede dei non-detti che pesano attraverso le generazioni (…)? Che cosa succede delle frecce non scagliate, delle domande non poste, delle rappresentazioni mancate, dei silenzi, dei rimossi?».
Il focus del libro è certamente il museo, ma questa istituzione, della quale si tenta di costruire una sorta di biografia culturale, è considerata sempre come inserita nel più ampio contesto di quello che Timothy Mitchell definisce “exhibitionary order”: una ordinata e accurata messa in scena del mondo che rimbalza tra diversi dispositivi (musei, esposizioni universali, freak show, letteratura di viaggio, resoconti etnografici, industria del turismo ecc), organizzata fra Ottocento e Novecento da uno sguardo Europeo che introna se stesso come universale, allo scopo di riempire di immaginari e dati “scientifici” l’immaginazione delle nascenti nazioni europee, anche attraverso la sistematica inferiorizzazione delle cultura extra-europee, in particolare quelle colonizzate, a conferma del “trionfale progresso della nostra civiltà”. Il museo è uno dei dispositivi principali di costruzione di questo sguardo e dell’identità del cittadino europeo moderno come norma: uomo/europeo/capitalita/militare/cristiano/patriarcale/bianco/eterosessuale.
Un dispositivo “cannibale”, che costruisce il suo oggetto (così come il suo pubblico) proprio attraverso l’atto del rappresentarlo: una mostrazione basata sull’opposizione noi/altro, che struttura l’intero assetto della nostra modernità, che istituzionalizza un modo di vedere, e più in generale di percepire, organizza lo spazio della fruizione, normalizza e controlla i corpi che lo attraversano.
In particolare le collezioni dei musei etnografici, fondate in molti casi su un vero e proprio accaparramento e su relazioni e rappresentazioni intrise di colonialità, costituiscono oggi un patrimonio difficile e conteso, oggetto di molteplici richieste che riguardano sia la restituzione alle comunità di provenienza, sia una profonda revisione delle narrazioni che il museo ha elaborato su di esse.
In che modo possiamo e dobbiamo decolonizzare questi spazi e i loro discorsi? Giulia Grechi traccia alcune traiettorie possibili di questo processo, attraverso lo sguardo esterno, critico, posizionato, di alcune pratiche curatoriali e artistiche contemporanee all’interno del museo. Questo libro dunque è anche l’esito di una sorta di ricerca sul campo, dove il fieldwork è il museo stesso, in particolare il museo etnografico come soggetto e dispositivo di potere/sapere, di relazioni con/fra le persone ma anche con/fra le cose, di costruzione di spazi e di rappresentazioni, di educazione, di conflitti – un luogo insomma fortemente performativo. Si tratta di pratiche artistiche e curatoriali di ri-mediazione, che spostano il nostro modo abituale di pensare il museo, le aspettative che abbiamo come pubblico museale, e creano una discontinuità che ci consente di acquisire nuove consapevolezze, di mettere in discussione non solo le nostre abitudini percettive e di fruizione, ma anche i modelli epistemologici sui quali esse si basano. Le pratiche citate nel libro si prendono carico dell’autorità del museo nella costruzione di un sapere, e si prendono cura del tentativo di dislocarla, a volte sovvertendola, attraverso sperimentazioni nel displaying, nelle narrazioni, nella relazione con gli oggetti delle collezioni e i corpi delle visitatrici e dei visitatori, per rendere il museo uno spazio più diasporico e poroso, a partire dal riconoscimento delle radici coloniali della propria grammatica e della natura incorporata della conoscenza.
Il libro si conclude continuando a interrogarsi sulla necessità di re-immaginare in modo radicale l’istituzione museale proprio a partire da quello che al museo sfugge, dagli oggetti, dai corpi e dalle parole che solo restando fuori da esso possono conservare quello che Achille Mbembe chiama il loro “potenziale di scandalo”. Questo può forse aiutarci a immaginare e costruire uno spazio completamente inedito, un “antimuseo” come luogo dell’ospitalità radicale, scrive Mbembe: «come luogo di riposo e di asilo senza condizioni per tutti i rifiuti dell’umanità e i “dannati della terra”, i testimoni di quel sistema sacrificale che è stata la storia della nostra modernità, una storia che il concetto di archivio stenta a contenere».
Scheda del volume a cura di Giulia Grechi
In copertina: Mostra Ex Africa, 2019. Foto di Luca Capuano, tratta dal progetto “Un’altra storia”